Le giravolte di Salvini disorientano soprattutto la Lega
Promette a Draghi lealtà, poi si sfila e insegue la Meloni, ma con un occhio a Conte: un caos. La propaganda sulla pace, lo sgarbo al premier in Aula, la pantomima sui balneari. E mentre Giorgetti approva la fiducia sul Concorrenza, lui già concorda con Tajani il sabotaggio: "Palazzo Chigi va di fretta? E noi la tiriamo in lunga al Senato"
Le mani se l’era volutamente tenute libere, forse per poterle poi brandire in Aula, tre giorni dopo, usandole con l’arte del prestigiatore che nasconde malamente il trucco, che dimostra insomma l’inconsistenza della promessa fatta. “Ma sì, voleva rassicurazioni sulla nostra tenuta, è preoccupato per quello che potrebbe fare Conte”, aveva spiegato ai suoi fedelissimi, lunedì sera, Matteo Salvini, raccontando dell’incontro appena avvenuto con Mario Draghi. E lo aveva fatto con la sufficienza di chi in fondo non dava troppo peso all’evento. Al punto che quando i suoi gli avevano chiesto se sarebbe dovuto cambiare qualcosa, nella tattica dei giorni a seguire, lui aveva ribadito gli ordini già assegnati. Tutto come prima.
E allora eccolo prendere la parola, in un Senato mezzo vuoto e parecchio distratto. Eccolo, il capo della Lega, che giura di voler fare “tre suggerimenti concreti”. E di lì l’elenco: “Chieda lei a Putin, presidente, e non Biden, di sbloccare i porti per scongiurare la crisi alimentare”. Come se fosse per un capriccio personale, che Draghi ha sollecitato l’intervento di Washington. “E poi, per Expo 2030 sono candidate Mosca, Odessa e Roma. Presidente, chieda a Mosca di appoggiare la candidatura di Odessa”. Senza spiegare, quand’anche la cosa andasse presa sul serio, cosa ne sarebbe delle altre candidature di Corea del sud e Arabia saudita. “Infine: chieda un cessate il fuoco di quarantott’ore per sedersi intorno a un tavolo”. Sembrava un attestato di stima. Era invece uno sfregio. Come il Tentatore nel deserto: “Se tu sei figlio di dio, ordina che queste pietre diventino pani”.
Ma in fondo neppure questo ha scomposto granché l’umore di Draghi. Il punto che ha confermato l’inutilità degli accordi presi in privato è stato la pubblica reiterazione della solita tiritera: quella sulla pace da cercare a ogni costo, quella della perniciosità dell’invio di armi, il soffiare sulla brace del malcontento sociale, perfino: “Chi vuole la guerra e vorrebbe mandare ancora armi, a settembre vada nelle fabbriche che stanno chiudendo a raccontarlo a quelle madri e a quei padri di famiglia italiani per i quali la guerra significa non mangiare più”. Dalle pose ducesche sul balcone di Forlì (“La difesa è sempre legittima”), al Mussolini direttore dell’“Avanti!”, il neutralista del 1914: “E’ venuto il giorno per il proletariato italiano di tener fede alla vecchia parola d’ordine: Abbasso la guerra!”.
Il tutto con cortocircuiti istituzionali clamorosi. Con aziende di stato come Leonardo, cioè, che da un lato si vedono sollecitate dal Mise del leghista Giorgetti a fare più in fretta nello sviluppo di progetti legati all’industria della difesa, e dall’altro si ritrovano con iniziative parlamentari, leghiste pure quelle, contrarie al rispetto dell’impegno Nato del 2 per cento.
E insomma c’è un motivo se a Palazzo Chigi hanno respinto le richieste dello stato maggiore del Pd. “Draghi venga in Aula prima del Consiglio europeo straordinario di fine mese, così da togliere ogni alibi a Conte”, ripetevano dal Nazareno. Ma dallo staff di Draghi hanno lasciato intendere che no, le comunicazioni del premier non ci saranno, perché il rischio che Salvini e Conte giochino d’azzardo è troppo alto.
Del resto anche sulla faccenda dei balneari, lunedì, il capo del Carroccio aveva dato garanzie. Il problema, aveva spiegato, era convincere una parte dei suoi ancora riottosi. Sembrava un’apertura. Poi, nelle riunioni che sono seguite, è riemerso lo stesso puntiglio: “Senza una proroga di almeno due anni, noi non ci stiamo”. Ieri una pattuglia di leghisti, al Senato, ha perfino chiesto udienza ai banchi del governo. C’era anche il forzista Maurizio Gasparri, con loro: “Ma con la guerra e il caro energia, stai pensando ai balneari?”, ha detto a Draghi. “Anche il Pnrr è una priorità”, gli ha risposto il premier. A cui allora è toccato esibirla, una certa insofferenza: e nel Cdm di ieri pomeriggio, convocato d’urgenza, ha ottenuto che sul testo del ddl Concorrenza, che contiene anche la norma sulle concessioni balneari, si mettesse la fiducia. Tutti d’accordo: mozione passata all’unanimità. Giorgetti ha perfino fatto un intervento, come capo delegazione leghista al governo, per confermare la posizione. Solo che nel frattempo Salvini, da Frosinone dov’era andato per un comizio, già si stava consultando con Antonio Tajani e i capigruppo di Lega e FI, già s’industriava per sabotare la prova di forza del premier. “O troveremo una mediazione, come sul catasto, oppure utilizzeremo il regolamento del Senato per tirarla in lungo”. Questa era la linea.