I governi durano poco ma i partiti ancora meno
Altro che rottamazione, dal M5s a Salvini ormai non si fa in tempo a fare il primo tagliando. Che cosa rivela la parabola di Matteo Renzi
Nella Prima Repubblica (cosiddetta) abbiamo avuto per quarant’anni una notevole instabilità dei governi, ma anche schieramenti e partiti praticamente immutabili.
Nella Seconda Repubblica (sempre cosiddetta) abbiamo avuto governi instabili, coalizioni friabili e partiti usa e getta, ma anche leadership inamovibili, come quelle di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, o quanto meno – come vogliamo dire? – estremamente resilienti, come quelle di Romano Prodi, Massimo D’Alema e in generale di tutti i gruppi dirigenti provenienti da Pci e Dc, contro i quali non per niente Matteo Renzi poteva lanciare, nel 2010, la virulenta parola d’ordine della “rottamazione”.
Oggi, comunque vogliamo numerare o nominare la presente stagione repubblicana, i leader non si fa in tempo nemmeno a portarli dal meccanico per il primo tagliando, a destra come a sinistra. Altro che rottamazione.
Evidentemente siamo dinanzi a una spirale, per non dire a un’escalation, in cui tutto ciò che sembrava dotato di qualche stabilità, passo dopo passo, si dissolve tra le nostre dita.
Da sempre siamo famosi nel mondo per l’effimera durata dei presidenti del Consiglio. Unica parziale eccezione la prima legislatura repubblicana (8 maggio 1948-4 aprile 1953), in cui si succedettero comunque tre governi, ma tutti guidati dallo stesso leader, che non per niente si chiamava Alcide De Gasperi. Già dalla seconda legislatura (25 giugno 1953-14 marzo 1958), infatti, la musica cambia di colpo, con ben sei governi e sei diversi presidenti del Consiglio in cinque anni (nell’ordine: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni, Zoli).
Se a questo punto qualcuno si stesse domandando cosa sia successo di così terribile tra la prima legislatura repubblicana, arrivata a scadenza naturale con lo stesso presidente del Consiglio con cui era partita (miracolo ripetutosi una sola volta nella storia, con Berlusconi, nella legislatura 2001-2006), e le legislature successive, caratterizzate da una media di quattro o cinque primi ministri, è presto detto: il tentativo di introdurre un corposo premio di maggioranza nel sistema elettorale, passato non per niente alla storia come “legge truffa”, su cui si incenerì la leadership di De Gasperi (e se un tale tentativo bastò a chiudere la carriera politica di De Gasperi, diranno i miei piccoli lettori, figurarsi quelli che sono venuti dopo: e infatti). Chiusa parentesi.
Per quanto riguarda il Regno d’Italia non ho fatto studi approfonditi, ma con cinquantasette governi succedutisi nei sessant’anni intercorsi dal 1861 (Cavour) al 1922 (Mussolini), mi sembra si possa dire che il problema della scarsa durata degli esecutivi rimonta a ben prima della famigerata Prima Repubblica, ed è letteralmente antico quanto la nazione (sul modo in cui dal 1924 al 1943, anche grazie alla legge Acerbo, la questione fu sbrigativamente risolta dal fascismo spero non ci sia bisogno di soffermarsi criticamente).
Per essere precisi, dall’ampia raccolta di studi pubblicata di recente da Laterza (“I presidenti e la presidenza del Consiglio dei ministri nell’Italia repubblicana” a cura di Sabino Cassese, Alberto Melloni e Alessandro Pajno), e in particolare dalla prefazione di Cassese, traggo il seguente conteggio: “L’Italia repubblicana ha avuto, dalla Costituzione, 67 governi, contro i 25 della Germania, in un periodo anche più breve. In Italia solo quattro dei 67 governi sono durati in carica più di mille giorni. Solo 31 più di un anno. 32 meno di un anno”.
Come si vede, con la Seconda Repubblica (cosiddetta) e l’addio al sistema proporzionale, la situazione non è migliorata sensibilmente. I governi hanno continuato a durare, mediamente, meno di due anni.
In compenso, si sono liquefatti i partiti.
Dal 1948 al 1991, Democrazia cristiana, Partito comunista e Movimento sociale hanno attraversato incolumi l’intero quarantennio. Quando da una tornata elettorale all’altra la Dc perdeva tre punti e il Pci o il Msi ne guadagnavano due, era un terremoto: cadevano governi e cambiavano le maggioranze, si aprivano dibattiti infiniti e accalorati sulla svolta, la nuova fase, lo sconquasso (tsunami non era ancora un termine entrato nel linguaggio giornalistico, fortunatamente, altrimenti sarebbe stato impiegato senz’altro).
Dagli anni novanta in poi, con il maggioritario e il bipolarismo, partiti e movimenti hanno cominciato a moltiplicarsi, scindersi, riaggregarsi e disintegrarsi a un ritmo tale da rendere praticamente impossibile seguirne la traiettoria a occhio nudo.
Un gioco che faccio spesso per esemplificare il punto riguarda il tracciamento di Clemente Mastella, che è stato tra i promotori dell’Udr prima e dell’Udeur poi, la quale a sua volta è stata, per qualche tempo, tra i partiti-componenti della Margherita, nata dall’aggregazione tra Lista Dini, Democratici, Popolari e, per l’appunto, Udeur. Senza dimenticare che Popolari e Udeur provenivano già dallo stesso partito (la Dc) da cui del resto proveniva anche, originariamente, quel Patto Segni poi confluito nel partito di Dini, a sua volta confluito nella Margherita. Con l’ulteriore complicazione che Lista Dini e Udeur non si limitavano ad animare, in diverse configurazioni, la coalizione di centrosinistra, ma facevano anche la spola con il centrodestra.
Il bipolarismo della Seconda Repubblica (cosiddetta) è caratterizzato insomma sin dall’inizio da questa tempesta di particelle che si incontrano e si scontrano senza posa. Ragion per cui, stante il principio di indeterminazione di Heisenberg, è impossibile definire esattamente il momento in cui l’elettrone-Mastella compie il salto da una coalizione all’altra.
In compenso, all’instabilità dei governi tipica della cosiddetta Prima Repubblica (anzi, come si è visto, dell’Italia unita), e all’instabilità delle coalizioni tipica della Seconda (sempre cosiddetta), faceva da contraltare, fino a qualche tempo fa, una certa stabilità delle leadership e dei gruppi dirigenti. Anzi, una caratteristica distintiva della cosiddetta Prima rispetto alla cosiddetta Seconda Repubblica sta proprio nel fatto che lì erano i partiti a cambiare i propri gruppi dirigenti, mentre qui sono i gruppi dirigenti a cambiare i partiti. In questo campo, più ancora del Berlusconi che chiude e riapre Forza Italia come fosse un tavolo da picnic, il caso di scuola è l’ultimo comitato centrale del Pci degli anni Ottanta, passato in larga parte intatto ai vertici del Partito democratico della sinistra nel 1991, quindi dei Democratici di sinistra nel 1998 e infine del Partito democratico nel 2007.
Evidentemente anche quest’ultima, parziale forma di stabilità è venuta meno. La durata di una leadership si misura ormai in mesi, per non dire in settimane.
Il caso più estremo è forse quello di Giuliano Pisapia in Liberi e Uguali, attorno alla terza decade del luglio 2017, durato praticamente il tempo di un abbraccio. Uno in particolare: quello per salutare Maria Elena Boschi alla festa dell’Unità di Milano, giudicato dai bersaniani troppo affettuoso (nota per i giovanissimi e per i più distratti: non sto scherzando, googlare per credere).
Per cogliere il ritmo indiavolato che il fenomeno ha ormai acquistato, basta osservare l’impetuoso crescendo degli ultimi dieci anni.
Nel 2012 tutti gli osservatori davano per scontata la vittoria del Pd guidato da Pier Luigi Bersani alle elezioni dell’anno successivo. Il risultato del 2013 si rivelava tuttavia al di sotto delle aspettative, lui stesso dichiarava in conferenza stampa di avere “non-vinto” e poco dopo veniva travolto dalla ribellione dei grandi elettori nelle votazioni per il Quirinale. Oggi è a capo di un partito che alle ultime elezioni ha superato di un soffio la soglia di sbarramento al 3 per cento, grazie al provvisorio e già sfumato accordo con un altro partito (Sinistra italiana) accreditato del 2.
Nel 2013 Matteo Renzi prendeva dunque la guida del Pd e alle europee del 2014 lo portava al massimo storico del 40 per cento. Meno di due anni dopo subiva una pesante sconfitta al referendum costituzionale su cui aveva scommesso tutto e alle politiche del 2018 portava il Pd al minimo storico del 18,7. Oggi, pur avendo avuto un ruolo decisivo nella formazione degli ultimi due governi, è a capo di un partito che i sondaggi quotano sotto il 2 per cento.
Alle elezioni del 2018 trionfava invece il Movimento 5 stelle, primo partito con oltre il 32 per cento, che già alle europee del 2019 precipitava però al 17, perdendo malamente anche tutte le successive elezioni locali e sprofondando in una crisi da cui non è più uscito. Oggi è quotato al 12.
A quelle stesse elezioni europee del 2019 in cui i 5 stelle dimezzavano i voti – sembra passato un secolo, era appena tre anni fa – la Lega di Matteo Salvini li raddoppiava, balzando al 34 per cento. Oggi i sondaggi la danno al 15.
Il Pd nel frattempo ha cambiato diversi segretari e avuto risultati elettorali altalenanti, ma è rimasto non lontano dal punto in cui Renzi lo aveva lasciato, cioè attorno al 20 per cento. Il bello è che, a causa di quello che nel frattempo è successo a tutti gli altri, tanto basta oggi per contendersi il posto di primo partito con Fratelli d’Italia, che alle europee del 2019 raccoglieva appena il 6 per cento dei voti.
La politica italiana è sempre stata famosa nel mondo per le sue incredibili complicazioni, ma quanto accaduto in questi ultimi dieci anni è un altro discorso. Il ritmo del cambiamento è tale che gli stessi protagonisti, evidentemente, faticano a tenere il passo, muovendosi sulla scena in modo scomposto, come marionette cui siano stati tagliati i fili (non c’è bisogno di fare nomi né di infierire su nessuno: dovrebbe bastare il fresco ricordo della girandola impazzita delle consultazioni tra i leader per l’elezione del presidente della Repubblica).
E’ come se il bipolarismo avesse raggiunto il suo picco alle elezioni del 2008, con la sfida quasi bipartitica tra Pd veltroniano e Pdl berlusconiano: il momento in cui senza dubbio la tormentata evoluzione del sistema politico e istituzionale ci ha portati più vicino al modello americano.
Dopodiché, dal fallimento di quell’esperimento, che ci ha ripiombati di fatto al punto di partenza (una crisi politica e finanziaria paragonabile a quella del 1992, con l’impennata dello spread al posto dell’uscita dal Sistema monetario europeo e con Mario Monti al posto di Giuliano Amato), il meccanismo, impossibilitato ad andare avanti, ha cominciato a girare all’indietro: Berlusconi ha chiuso il Pdl e riaperto Forza Italia; Giorgia Meloni e Ignazio La Russa hanno rifatto Alleanza nazionale, cambiando il nome ma riesumandone il simbolo; Bersani e D’Alema hanno rifatto i Ds, sebbene in miniatura.
In parte, forse, ha ragione Paolo Cirino Pomicino, quando nel suo bel libro dal bruttissimo titolo appena uscito per Lindau, “Il grande inganno. Controstoria della Seconda Repubblica” (il genere di titolo che ti aspetti di trovare nella libreria di Beppe Grillo), se la prende con i danni fatti dagli ex comunisti nella demolizione della Prima Repubblica (cosiddetta) e nella demonizzazione dei suoi partiti, delle sue istituzioni e della sua storia (di cui pure i comunisti erano parte importante). Ma Pomicino si dimostra anche un cattivo lettore di se stesso, perché dalla sua ricostruzione emerge chiaramente come le personalità del mondo politico, economico, giornalistico e intellettuale che hanno posto le basi della Seconda Repubblica (cosiddetta) siano di estrazione assai più varia. Ed è tutto da vedere, in questa ampia ed eterogenea alleanza, chi siano stati gli utili idioti e chi gli immeritevoli beneficiari.