Il giudice e la cupola
Falcone contro il "terzo livello"
Esiste “solo nella fantasia degli scrittori”, disse
Fu il giudice assassinato 30 anni fa a coniare l’espressione, nel 1982. Ma il circo mediatico, e poi i magistrati dell'Antimafia dagli anni ’90 alla Trattativa, ne snaturarono il senso. Più volte il magistrato contestò l’uso che ne veniva fatto: la “cupola” intesa come anti-stato collegato a poteri politici economici o massonici, esisteva secondo Falcone “solo nella fantasia degli scrittori”
Nella memoria e nei bilanci è difficilmente evitabile il rischio di perpetuare una retorica fatta di forzature e di veri travisamenti, molto partisan. Ad esempio quando si parla del “metodo” di Giovanni Falcone. Ieri l’editoriale di Massimo Giannini sulla Stampa si chiedeva: “Cosa resta delle sue tensioni morali? Su quali gambe hanno camminato le sue idee?”, e la riga successiva denunciava il presunto isolamento di “toghe del calibro di Gratteri e Di Matteo”.
Vale la pena precisare che a fare la differenza sono anche i risultati, che Falcone portò e i due citati meno. Ma c’è soprattutto una questione di metodo. Il fallimento del processo sulla Trattativa di cui l’Appello ha demolito il teorema risiede, in sostanza, nell’aver ipostatizzato fino all’estremo una errata interpretazione del pensiero di Falcone, e su un punto decisivo: quello del cosiddetto “terzo livello”. Il patto occulto, tra anti stato e poteri indecifrabili, di cui la mafia è strumento. Che l’espressione sia stata coniata da Falcone, già nel 1982 – in una relazione scritta con Giuliano Turone per un seminario del Csm, “Tecniche di indagine in materia di mafia” – è cosa nota. Serviva a indicare reati detti “di terzo livello” in quanto “miravano a salvaguardare i perpetuarsi del sistema mafioso “si pensi d esempio all’omicidio di un uomo politico, o di un altro rappresentante delle pubbliche istituzioni, considerati pericolosi per l’assetto di potere mafioso”. Non indicava quindi una “cupola” politico affaristica, come diventerà subito nella vulgata giornalistica, con tanto di massoneria e servizi. Quel livello misteriosofico che piaceva tanto agli sceneggiatori della Piovra, la celebre serie televisiva che debuttò proprio nel 1984 e contribuì a introiettare nel pubblico italiano il concetto-chiave di terzo livello. E di cui il trashissimo Padrino III, nel 1990, chiude la mitologia, con tanto di assassinio del Papa. Una forzatura così pervasiva che fu proprio Falcone, anni dopo, a voler chiarire il suo pensiero. Lo fece in un convegno a Palermo nel giugno 1988, di cui si trova facilmente traccia in rete: “Lotta alla droga verso gli anni Novanta”. Disse: “Al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono terzi livelli di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa nostra. Ovviamente, può accadere ed è accaduto che, in determinati casi e a determinate condizioni, l’organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari e abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressatamente; gli omicidi politici commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia e altri centri di potere”. Non altro.
Fino alla drammatica audizione al Csm dell’ottobre 1991, quando Falcone era ormai costretto a difendersi dalle accuse e dalle insinuazioni di parte dei colleghi, e con determinazione ribadì la sua visione: “Il terzo livello, inteso quale direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria ecc… e che sia quello che orienta Cosa nostra, vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica”. I grandi processi di mafia celebrati dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – Andreotti, Dell’Utri, Contrada, fino alla saga della Trattativa – seguiranno invece in una chiave o nell’altra lo schema narrativo del terzo livello, quello che Falcone rifiutò esplicitamente. Narrazione difficile da sostanziare senza la costruzione del concorso esterno, il “reato che non esiste”, combinato disposto dell’art. 110 e 416-bis della legge Rognoni-La Torre, che Falcone maneggiava, ancora una volta, con estrema prudenza: “Vi è il pericolo che che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta”, disse nel celebre libro intervista con Marcelle Padovani.