Guerra e nonviolenza secondo Pannella
Contro il pacifismo. Nei giorni dell’assedio di Sarajevo e della forza multinazionale dell’Onu in Somalia. Con la mente a Monaco, a Gandhi e alla solita avversione per l’occidente. Un’intervista di trent’anni fa che sembra scritta ieri
Sono passati in questi giorni sei anni dalla morte di Marco Pannella. Ricordiamo in questa pagina il leader radicale, e le sue idee così attuali sulla nonviolenza, la guerra e il pacifismo, con un ampio stralcio dell’intervista che gli fece Adriano Sofri il 20 gennaio 1993 in vista del XXXVI Congresso del Partito Radicale, nei giorni dell’assedio di Sarajevo. Il testo completo è nel volume “Marco Pannella, il Partito Radicale, la nonviolenza” (Reality Book), a cura di Laura Arconti e Maurizio Turco.
Alla conferenza tenuta a Sanremo fra pacifisti della ex Jugoslavia ed europei sono stati gli stessi militanti del Centro anrtiguerra di Belgrado ad auspicare la formazione di una Corte internazionale sotto l’ombrello dell’Onu e della Csce. Un simile organismo potrebbe diventare, a differenza di quanto avvenne a Norimberga, un tribunale permanente contro i crimini di guerra. E intanto anche un solo paese, come l’Italia, potrebbe decidere di prepararne e anticiparne l’operato aprendo un registro delle denunce e delle testimonianze. La guerra nell’ex Jugoslavia ha accentuato una rottura con associazioni pacifiste, benché fra queste ultime si siano fatte strada posizioni più duttili e decise a confrontarsi con le situazioni concrete. Peccato, no?
“Il pacifismo ha pesato tragicamente a vantaggio dei dittatori e a costo degli oppressi; a vantaggio degli stati totalitari militaristi e contro le democrazie da riarmare; è stato un fattore psicologico influente della politica di Monaco, e dell’avversione all’occidente. Gandhi era altra cosa”
“Siamo alla fine di un secolo, e all’ora dei bilanci. Uno che ha l’età del secolo è Karl Popper, la cui opera principale, ‘La società aperta e i suoi nemici’, in Italia restò (et pour cause) inedita per quasi mezzo secolo, fino al 1974, quando uscì da Armando. Cinque anni fa ne avevo letto l’apologia dell’uninominale a un turno anglosassone. Ho scoperto da poco, grazie al libro intervista del vicedirettore dell’Unità, Giancarlo Bosetti, che questo ultraliberale è anche uno studioso appassionato della nonviolenza e di Gandhi. Ricordo viceversa lo sconcerto che provai quando Dahrendorf mi comunicò candidamente di non aver mai pensato che ci fosse una distinzione fra nonviolenza e pacifismo. La lettura del pacifismo è univoca, e se ne traggano le conseguenze: nelle catastrofi, nelle mostruosità del secolo esso ha pesato tragicamente a vantaggio dei dittatori e a costo degli oppressi; a vantaggio degli stati totalitari militaristi e contro le democrazie da riarmare; è stato un fattore psicologico influente della politica di Monaco, e dell’avversione all’occidente. E’ stato portatore di atteggiamenti messianici e irenici; Gandhi era altra cosa. Ho trovato in uno scritto di tuo fratello l’affermazione gandhiana che la violenza per una causa giusta è più lodevole di una vile adesione all’ingiustizia.
Sul Golfo alcuni di noi dissero, soltanto a operazione iniziata, che non ritenevano negativo che l’Italia partecipasse. Questo, e non altro. Mi pare che la Jugoslavia e il medio oriente dimostrino che i guai peggiori succedono per l’inadeguatezza dello strumento militare, la cui sofisticazione tecnologica non lo rende meno rozzamente unilaterale, e che tuttavia si continua a ritenere il solo possibile. Tanto più quando si deve mettere insieme la schematicità di un piano militare con le montagne della Bosnia o del Montenegro, invece che coi deserti della Somalia. Come Bruno Zevi non si stanca di ripetere, la nostra società ha superato la linearità per la complessità. Le opzioni militari restano in vece sempre un eccesso di zelo della linearità. La forza delle armi, la loro presunta ‘intelligenza’, sono una cruna d’ago troppo stretta per farci passare i problemi del mondo. Se le armi prevalessero sulla verità – l’informazione, l’istruzione, la cultura – alla fine del secolo i poveri fantasmi di oggi sarebbero antagonisti irriducibili. Il diritto all’ingerenza, di cui si comincia a parlare, è da anni un cardine della nostra azione. Nell’appello dei premi Nobel del 1981 era già teorizzato il dovere dell’ingerenza”.
Pacifismo e nonviolenza
Ho letto anch’io il Gandhi citato da mio fratello, che deplorava una nonviolenza che fosse frutto di codardia. Tuttavia è impossibile ogni ricorso univoco a Gandhi. Alcuni pacifisti gli chiesero spiegazioni e conto delle circostanze in cui accettò l’entrata in guerra – nella guerra anglo-boera, o contro gli zulù, o l’intervento indiano con l’esercito britannico nel 1914-15. Secondo i suoi migliori biografi, la vera scelta per un pacifismo intransigente, assoluto – per lui il pacifismo era l’estensione ai rapporti internazionali della nonviolenza – non venne se non nel 1935-36. Sarebbe impossibile utilizzare direttamente il Gandhi, se non di Monaco – l’Europa ha venduto, disse, la sua anima per un tozzo di pane – della risposta al nazismo e della seconda guerra mondiale. Mi pare che la distinzione fra pacifismo e nonviolenza venga dopo e abbia a che fare con il pacifismo come movimento ideologico, o appendice di schieramenti politici. Sulla Bosnia, oggi, se ci sono posizioni di principio che escludono ogni intervento militare – come quelle dei “Beati costruttori di pace”, autori recenti di un ammirevole pellegrinaggio a Sarajevo – c’è molto più diffusa, anche se più o meno dichiarata, una disponibilità ad affrontare il problema delle condizioni concrete di un ricorso alla forza, da parte di chi, con quali fini e quali rischi e così via. L’eventualità di un intervento internazionale per aprire i corridoi di accesso, e di uscita, da Sarajevo; o per colpire aeroporti, installazioni di armamenti pesanti, linee di rifornimento e di comunicazione da cui muovono gli attacchi e i bombardamenti ai civili; tutto ciò non viene affatto respinto da. gran parte dei “pacifisti” europei. Forse occorrerebbe mirare a un confronto più largo e produttivo di iniziative concrete. Voi siete stati fra i primi, se non i primi, ad andare in Jugoslavia, e contate oggi su una fiducia importante anche da parte di esponenti musulmani. Ho visto anzi che complessivamente fra gli iscritti stranieri al Partito Radicale c’è un venti per cento di musulmani, che è una proporzione notevole per sé, e ancora più notevole per una formazione che non accetta compromessi sulla confusione dell’antisionismo.
“Dal ‘79 siamo andati ogni anno in Jugoslavia; incontravo gli sloveni, i croati. Il Partito Radicale è stato il primo partito cui fosse possibile iscriversi in Jugoslavia al tempo del monopolio di fatto della Lega dei comunisti: e si iscrissero in 5-600. Quando emerse la volontà slovena e croata, di indipendenza non più in una federazione, ma in una Confederazione associata alla Cee, e venne un no assoluto, ultrabelgradese, da De Michelis, dalla Cee, noi dicemmo che bisognava accettare, e che intanto si dovessero accogliere a titolo intero le repubbliche che avessero garantito i diritti civili e umani. Ci vietarono il congresso a Zagabria – fu in parte una fortuna, andammo a Budapest. Nel 1988 i giovani socialisti di Slovenia accolsero in loro strutture pubbliche il nostro Consiglio federale, in aperta ribellione al divieto di Belgrado. Fui l’unico politico straniero nella Lubiana minacciata dai bombardamenti. A Zagabria il presidente del Consiglio Greguric e il vicepresidente Tomac si iscrissero pubblicamente al partito, e con loro quattro ministri, 40 deputati. Tutto ciò ha contato, quando si è trattato di far scegliere al presidente Tudjman contro gli ustascia e l’estrema destra. Avevamo digiunato per loro, eravamo stati gli unici amici su cui potessero contare in Europa: e ci furono momenti in cui i più consapevoli fra loro poterono far pesare contro le scelte più brutali l’avvertimento che sarebbe costato la rottura con noi. Così nel momento delicatissimo in cui si giocava l’accordo con la Serbia per spartirsi tutta la Jugoslavia. Adesso sono stati sconfitti, quei nostri amici, ma per fortuna troppo tardi per tornare indietro. Sull’uniforme croata che indossai c’era il mio nome, l’aveva ricamato per me la moglie del comandante delle Forze armate croate. C’era già chi, da una vita trascorsa a Belgrado, ci diceva: faranno peggio che nel 1944-46, si scanneranno”.
C’è tuttavia il rischio che la conferenza di Ginevra finisca nel modo peggiore, e non del tutto dissimile dalla Monaco del ‘38, con un’autorizzazione internazionale a punire i Bosniaci che non si adattino alla spartizione etnica. E c’è il rischio che l’accordo fra Croazia e Serbia riaffiori sulla pelle della Bosnia.
“Ginevra va bene, si dialoga anche, anzi soprattutto con gli assassini, ma che sappiano che è già incardinato il processo che perseguirà ciò che hanno fatto e ciò che faranno. Ma il piano stesso elaborato da Owen e Vance a Ginevra, quello delle 10 province, è gravissimo. Mira in sostanza a riportare a un 40-45 per cento il 70 per cento del territorio occupato dai serbi. In quei territori vigeva fino a poco fa la coesistenza etnica. Abbiamo insistito da tempo sulla necessità di un accurato censimento dei profughi, con i luoghi di provenienza e le minoranze di appartenenza, perché si ricostruisca l’anagrafe distrutta per il giorno del ritorno”.
E’ proverbiale l’ostinazione con cui tu rimanevi in città in agosto, perché nella vacanza universale era più facile conquistarsi uno spazio nei media. Così, addirittura a metà dell’agosto del 1974, strappasti a una sonnacchiosa direzione del Corriere della Sera l’ospitalità, sia pure in un minuscolo corpo 7, a un articolo che proponeva un “processo penale e non morale” alla classe politica. Pochi giorni dopo, Pier Paolo Pasolini, eccitato dall’idea, la riprese e, col risalto della prima pagina, la rilanciò: il processo al Palazzo. Sono passati quasi vent’anni, e il processo penale al palazzo è arrivato: quanto simile e quanto diverso dalla profezia-anatema di allora? “Non me ne ricordavo più, di aver proposto una cosa così essenziale: a tal punto la memoria si fa intermittente. La censura e la rimozione altrui fanno sì che anche per te la tua immagine si allontani dalla tua identità vera, e questo è terribile. Il processo penale è in corso, anzi è appena agli albori, se si bada, prima e più che al furto di denari, al furto di legalità. C’è un mancato rispetto per le regole che è istintivo, naturale piuttosto che doloso: frutto di un’abitudine, una mentalità, una cultura che assimilano largamente al ceto politico gli uomini del terzo e del quarto potere, i giudici e gli attori dell’informazione. A questa cultura, e alle sue sottospecie, lo stato di diritto è estraneo più che bestemmiato, i princìpi liberali ignorati più che deliberatamente offesi. Li incontrano da una parte come una nozione astratta e inutile, dall’altra come un impaccio pratico e un fastidio: li chiamano garantismo, e hanno fretta di sbarazzarsene. E’ bene che si perseguano i furti e le loro destrezze maggiori o minori, ma è decisivo che si restauri, o si instauri, la regola del non rubare, e del creare, dell’aggiungere, piuttosto che del rubare. Anche per questo il primo addebito da contestare dovrebbe essere l’associazione per delinquere. Molti magistrati, e moltissimi giornalisti, sono attenti solo alle private disonestà; l’omissione del reato di associazione riduce alla loro somma decisione politica (e di vita) che al contrario inducono infinite disonestà anche negli onestissimi. E’ una scelta di politica giudiziaria, tendenzialmente omissiva: tiene sotto gli uomini contro cui si batte, o il potere cui appartengono, con meccanismi di distruzione-sostituzione dell’avversario. Sento aleggiare attorno ad alcuni alti magistrati la destinazione imminente a governare, ormai da ex giudici, la cosa pubblica.
“La forza delle armi, la loro presunta ‘intelligenza’, sono una cruna d’ago troppo stretta per farci passare i problemi del mondo. Se le armi prevalessero sulla verità alla fine del secolo i poveri fantasmi di oggi sarebbero antagonisti irriducibili. Il diritto all’ingerenza è da anni un cardine della nostra azione”
E’ un paradosso: ma può avvenire da noi in questa forma un fenomeno affine al molo populista e giustizialista dei militari in America del sud o in genere nel Terzo Mondo, che fa passare quei regimi dalla padella della democrazia fittizia e corrotta alla brace delle giunte di salute pubblica. Al ‘processo’ che nel ‘74 chiesi, e chiese poi magistralmente Pasolini, era estraneo ogni impulso di giustizia sommaria e di strada. Quel processo noi abbiamo lavorato a incardinarlo, con atti concreti e rituali, anno dietro anno. Anche questo si rischia di dimenticare. Come quando dopo la campagna elettorale del 1983 – ‘non votateci’, dicemmo, perché i dadi sono truccati, perché senza conoscere non si può deliberare; partecipiamo solo per denunciarlo – fummo assenti il giorno dell’apertura della legislatura, perché eravamo in tutte le procure generali italiane a presentare e illustrare denunce formali di attentato alla Costituzione e sequestro di legalità da parte del potere di fatto. E non avevano a che fare col ‘processo’, col suo incardinamento, le questioni sottoposte alla Corte costituzionale, ridotta troppo spesso a un tribunale speciale di tutela del regime e non della legge? Sulla scia dei processi provocati, la Corte arrivò bensì, sotto Branca, e ancora con Bonifacio, alla demolizione dei codici fascisti. Ma quanto più regolarmente avallò poi convenienze politiche, dalle emergenze alla ‘ondata referendaria’, o alle pensioni, per le quali una ‘incompatibilità economica’ magari plausibile (l’equivalente del sostanzialismo delle emergenze criminali ecc.) soppiantava la legge, invece di modificarla, o rispettarla? Così fino al referendum sul Senato respinto tre anni fa: si sarebbe votato già col sistema misto, dei due terzi con l’uninominale all’inglese, un terzo con la proporzionale – oggi ormai inadeguato, ma allora ancora capace di far da ultimo atto a un trapasso non traumatico del regime; respinto allora sulla base di motivazioni ogni volta estemporanee, e accolto oggi. Senza il voto determinante di Conso, neanche il referendum sulla preferenza unica sarebbe passato”.
Le settimane che ci aspettano
“Tangentopoli passerà da una decina a una ventina di procure della Repubblica. Arresti da prima pagina andranno in nona per ragioni di spazio. Frana tutto. Ci sono suicidi. In questo terremoto esploderanno entro marzo conflitti sociali aspri, vissuti con grande autenticità di sofferenza e di allarme, ma con interpretazioni subalterne e inadeguate. Con quella cultura di tutti che fino a poco fa presentava come grandi conquiste sociali le pensioni a 40 anni, a 45 anni. Occorrerebbe un senso del dramma, ed è quello che più manca, per evitare che questa tensione sociale porti a un ciclo di repressione e di attacchi e a un ulteriore incattivimento. Il Tg3 e la sua piazza, metà popolo metà corte dei miracoli, opposta all’inadeguatezza di coscienza di tutte le autorità, e alla portata del deficit. Chi deve metterci una pezza al giorno non può farcela, e d’altra parte non può farcela un mondo politico dominato dalla paura. Orlando lo dice, che ha paura di essere ammazzato, della morte. Ma, senza dirlo e guardarla in faccia, il Parlamento intero è spaventato”.