L'intervista
Il fronte del Pd per il Sì al referendum. Parla il sindaco di Torino
Dopo il primo cittadino di Pesaro Matteo Ricci e quello di Bergamo Giorgio Gori, anche Stefano Lo Russo spiega al Foglio perché sostiene uno dei cinque quesiti referendari, quello più caro agli amministratori locali, quello che abroga la legge Severino
Che dentro al partito l’argomento fosse quantomeno dibattuto lo si era capito subito. Durante la direzione di alcuni giorni fa il segretario Enrico Letta ripeteva: “Noi siamo per il No, ma il Pd non è una caserma”. Affermazione distensiva, ma soprattutto realista. Il messaggio infatti è passato subito. E così tra i dem si allarga ogni giorno di più il fronte di coloro che almeno su alcuni dei cinque quesiti referendari sulla giustizia voteanno Sì. Dopo il primo cittadino di Pesaro Matteo Ricci e quello di Bergamo Giorgio Gori, anche il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo spiega al Foglio perché il prossimo 12 giugno andrà al seggio per mettere la sua croce su uno di quei cinque quesiti, quello più caro agli amministratori locali, quello che abroga la legge Severino. “Sugli altri seguirò la linea del partito e voterò No, ma sulla Severino francamente non me la sento. E’ una legge che colpisce ingiustamente tanti amministratori locali”, spiega.
I sindaci sono i più penalizzati dalle stringenti regole della legge Severino che prevede non solo l’incandidabilità, ma anche la decadenza dalla carica automatica in caso di condanna anche solo di primo grado per tutti i reati non colposi, compresi quelli minori come l’abuso d’ufficio. Come ricordava ieri Giorgio Gori dalle colonne di questo giornale i procedimenti avviati per abuso d’ufficio che si concludono con la condanna in via definitiva in Italia sono meno di uno su 100: nel 2017, 54 condanne su 6.500 procedimenti avviati. Molto spesso gli indagati sono sindaci, consiglieri regionali e amministratori locali.
Non è un caso che già a febbraio, quando la Corte Costituzionale ha avallato i cinque quesiti, i sindaci dem si siano ribellati al segretario Letta che annunciava il No del partito al voto. “Allora la Severino va cambiata in Parlamento”, gridavano i primi cittadini. Da allora però questo non è accaduto, quelle voci sono rimaste inascoltate. Solo negli ultimi tempi Letta ha aperto a questa opzione e per fermare il fronte dei malpancisti il senatore dem Dario Parrini ha presentato un disegno di legge proprio per abrogare l’incandidabilità e la decadenza per gli amministratori condannati non in via definitiva; ma giunti a questo punto per tanti è ormai troppo tardi.
Dice il sindaco di Torino: “Purtroppo il Parlamento ha sbagliato a non modificare prima la legge. Per questo oggi il referendum diventa l’unico strumento per fare qualcosa, per dare almeno un segnale politico, augurandoci che sia, anche in caso di mancato raggiungimento del quorum, uno stimolo per le Camere a modificare le regole della legge Severino”.
Come Gori, anche Lo Russo pensa che questo sia un passo necessario per armonizzare l’ordinamento giuridico al dettato garantista della “presunzione di non colpevolezza” sancito dall’articolo 27 della Costituzione. “Il principio che sta dietro alla legge Severino – insiste Lo Russo – non va bene, è totalmente anti garantista. E’ l’unica legge che prevede meccanismi automatici dopo il solo primo grado, mentre il nostro ordinamento stabilisce la presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva, solo allora dovrebbero essere applicate le sanzioni accessorie e invece oggi non è così”.
Ma tra i ribelli non ci sono solo i sindaci. I primi a invitare Enrico Letta a ripensarci proprio sul Foglio furono i giuristi dem Stefano Ceccanti ed Enrico Morando, favorevoli a tre dei cinque referendum (separazione delle carriere, valutazione dei magistrati e riforma del Csm). Da allora il fronte del Sì è cresciuto trasversalmente alle correnti dem, non solo in quella riformista che fa capo al ministro Lorenzo Guerini, e in modo non omogeneo (c’è chi voterà Sì solo a un quesito e chi come Gori è pronto a votarli tutti e cinque).
Ieri in Puglia è nato persino un comitato “Democratici per il Sì”. L’ha creato il consigliere regionale Fabiano Amati con l’auspicio di “incoraggiare attraverso l’esito favorevole del referendum le riforme più coraggiose sulla giustizia, il più incrostato problema del nostro Paese”. Il Pd non è decisamente una caserma. E per fortuna.