Salvini rifugge il congresso e congela la Lega fino alle politiche

Il segretario continua a rinviare la conta nelle province e nelle regioni, così da rimandare il confronto nel partito. Con tanti saluti allo Statuto. Il leader nel bunker e quel timore per le faide in Veneto, in Toscana e nel sud. E così il capo si blinda fino all'estate del 2023

Valerio Valentini

All’inizio era la pandemia. E siccome durò a lungo, si capì presto che l’alibi reggeva poco, visto che il partito più aperturista d’Italia, quello che voleva riportare la gente in discoteca, si appellava  alle restrizioni governative per giustificare il rinvio a data da destinarsi del congresso. “Molti dei nostri non hanno il super green pass”, fu la scusa. E si chiuse lì. Ora però che la motivazione dell’attesa sta nelle elezioni amministrative, e poi in quelle regionali, che insomma meglio non complicarci la vita, si capisce allora che Matteo Salvini preferisce restare lì, nel suo fortino di una segreteria transitoria. Anche se in spregio delle regole interne. 

Lo Statuto della Lega per Salvini Premier stabilisce infatti che, dopo la prima fase d’intermezzo, il congresso venga “convocato dal segretario federale in via ordinaria ogni tre anni”. Due in meno rispetto a quanto accadeva nella vecchia Lega, quella del Nord, dove però alla figura del segretario era affiancata quella del presidente. Con nome e cognome. “Il socio Umberto Bossi è il padre fondatore della Lega Nord e viene nominato presidente federale a vita, salvo rinuncia”. Nel passaggio al nuovo partito nazionalista, gli uomini di Salvini ottennero la rimozione del patriarca, ma in compenso, quella vecchia volpe di Roberto Calderoli ridusse la durata del mandato del capo unico: tre anni, appunto. 

Che vanno contati a partire dal 21 dicembre del 2019, giorno in cui a Milano fu celebrato il congresso fondativo della Lega salviniana. Dunque al più tardi entro il Natale che verrà bisognerebbe, a norma di statuto, celebrare il rito che ridefinisce cariche e gerarchie del partito. Ma nel Carroccio sono già rassegnati all’evidenza dei fatti: non si farà in tempo. Lo si è capito due giorni fa, quando Salvini, nel corso del consiglio federale a Via Bellerio, s’è limitato a un rapido accenno ai congressi cittadini, che dovrebbero svolgersi “nei prossimi mesi”. Nessun riferimento alle conte provinciali, che sono quelle che avviano davvero la macchina verso il congresso federale, e che ne determinerebbero anche la composizione, visto che “i segretari provinciali delle articolazioni territoriali regionali con almeno 50 soci” avrebbero poi diritto di voto per il congresso. 
E siccome è chiaro che, una volta mangiato il panettone, si sarà già nell’ansia da prestazione per le politiche del 2023, nessuno si illude che davvero Salvini accetti di aprire la partita congressuale nel bel mezzo di una campagna elettorale che, a suo avviso, dovrebbe portarlo a Palazzo Chigi. 

E dire che in effetti c’è chi, anche nel cerchio stretto dei suoi consiglieri, gli suggerisce di giocare d’anticipo. “Convocalo subito, il congresso, così ti rafforzi e hai un’investitura piena per il voto”. Lo statuto glielo consentirebbe. Basta la semplice decisione del segretario federale perché si celebri il congresso “in via straordinaria”.  Macché. Il capo non ci pensa proprio, al momento. E non perché tema davvero la defenestrazione: all’orizzonte non c’è né un vero antagonista pronto a sfidarlo, né un clima interno favorevole a un eventuale putsch.

Il timore, semmai, è legato alle molte complicazioni, anzitutto politiche, che l’indizione del congresso genererebbe. Anzitutto perché i congressi provinciali segnerebbero l’inizio delle grandi manovre. E dunque riposizionamenti, e dunque faide locali con focolai campanilistici che potrebbero magari divampare fino a mettere in discussione i fedelissimi del Capitano in qualche grande città, oppure, chissà, in qualche regione. Chi può dire come andrebbe a finire, ad esempio, una nuova conta in Veneto, tra le fazioni di Zaia, Fontana e Bitonci, proprio in quella terra di San Marco che manco a dirlo invoca da più tempo un congresso? E in Toscana, davvero Mario Lolini riuscirebbe a respingere l’assalto di ritorno di una Susanna Ceccardi che non ci sta a recitare il ruolo della meteora? Per non parlare del sud: una polveriera che Salvini controlla a stento.

Senza contare, poi, l’altra incognita: quella delle liste. I segretari provinciali sarebbero quelli delegati a indicare le rose dei candidati per il Parlamento. Ed è vero che al segretario federale è riconosciuto potere di veto, di vita e di morte di ogni singolo profilo propostogli. Ma uno stravolgimento degli elenchi proposti dai territori significherebbe entrare in conflitto coi vari colonnelli locali. Meglio evitare. Meglio rinviare ogni cosa. 
Per questo Salvini resiste. E anzi più che resistere fa spallucce, fa lo gnorri. “Congresso? What is Congresso?”, scherzano nel suo giro di amici più stretti, quando li si sollecita sul tema. Quieta non movere, verrebbe da dire. Se non fosse però che proprio l’immobilismo rischia di generare inquietudine.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.