il ricordo
De Mita, Craxi e la convergenza parallela per l'abolizione del voto segreto sui bilanci
Il patto competitivo con l'alleato e rivale strategico salvò l’Italia dalla Magna Grecia. Ci fosse ancora il voto segreto sulle leggi di spesa, saremmo membri secondari dell’Unione degli stati del Mediterraneo meridionale
In morte di Ciriaco De Mita, ultranovantenne e tenace sindaco di Nusco, lui che fu sempre sfottuto per accento irpino e appartenenza municipale, oltre che per l’aria da testa d’uovo capace di procurargli la (involontariamente) splendida definizione di intellettuale della Magna Grecia, è stato detto che provò a fare le riforme istituzionali senza mai riuscirci. Non è vero. De Mita durante il suo governo (1988-1989) stipulò con Bettino Craxi il patto di maggioranza che portò, dopo una lunga campagna decisionista di quel leader socialista che era il suo alleato tattico e avversario strategico, all’abolizione del voto segreto sulle leggi di spesa in Parlamento. Fu la principale se non l’unica riforma istituzionale entrata in vigore nella storia intera della Repubblica, a parte l’infausta e codarda abolizione della divisione dei poteri attraverso l’abrogazione del voto delle Camere per procedere a istruttorie sui parlamentari, (articolo 68 della Costituzione). Non sono chiacchiere o cavillosi interna corporis, come si dice, sebbene sia difficile raccontarne le conseguenze a chi allora non c’era. Una volta il Parlamento italiano era fomite di perenne instabilità e i franchi tiratori di ogni parte e da ogni parte erano i padroni del gioco.
Il voto segreto era nello Statuto Albertino, per proteggere gli eletti dalle interferenze del Re. Poi fu teorizzato, nonostante i dubbi di molti costituenti e l’indignazione politica di un Luigi Sturzo, per proteggere i parlamentari dai vincoli di partito alla loro libertà di mandato, motivazione pelosa. Nella realtà della storia repubblicana i regolamenti di Camera e Senato a voto segreto generalizzato (è rimasto per i diritti e i voti sulle persone e l’elezione del Quirinale) erano uno strumento accettato e riverito per destabilizzare le maggioranze, sottrarre agli elettori ogni forma di controllo sull’operato degli eletti, blindare la combinazione di trasversalismo trasformista e consociativismo politico che fu lo schema di gioco della Prima Repubblica. De Mita si accordò con Craxi per imporre questa elementare norma westminsteriana, e indusse a più miti consigli sia la Dc sia il riottoso Pci, perché la sua gigantesca rissa con il capo socialista, che divampò nel cuore degli anni Ottanta, fu in realtà un conflitto tra due decisionismi, un genuino scontro di potere e di strategia per diverse visioni dell’Italia e della sua modernizzazione.
Nel 1987, quando Craxi denunciò il patto della staffetta e rifiutò di cedere Palazzo Chigi al leader democristiano, dopo tre anni di successi del suo governo, De Mita disse che era “inaffidabile per la democrazia”. Due anni dopo quel giudizio “definitivo” i due siglarono l’intesa che doveva dare gambe e forza di governo alle istituzioni democratiche, sottraendo gli esecutivi alla logica di sistema indecisionista del ricatto e delle pressioni di lobby. Quella riforma fu subito contraddetta dai due che l’avevano varata all’insegna di un patto di potere tra loro che però restò sterile. Come diceva apertamente in colloqui postumi con chi era stato amico e consigliere di Craxi, De Mita non puntava alla solita Italia sgangherata del vecchio proporzionalismo puro, produttore seriale di crisi e governi a ripetizione: la sua ambizione postmorotea, contraddittoria e confusa come sempre nella cultura istituzionale democristiana, era di legittimare un’alternanza in cui i comunisti fossero parte integrante ed egemone del blocco avversario. Per questo collaborava con i socialisti al governo, ma nel gioco di sistema se la intendeva con i comunisti per indebolire le pretese del suo alleato di centrosinistra.
Quando nel 1987 Craxi si rese inaffidabile e impedì alla Dc di riprendere la guida dell’esecutivo, contando sul suo successo e sperando in un battesimo elettorale delle proprie ambizioni, De Mita non esitò ad accordarsi con Alessandro Natta, capo del Pci, sotto gli auspici televisivi di Enzo Biagi e dell’establishment anticraxiano e poi antiberlusconiano, per il ricorso alle elezioni anticipate. Al termine di una lunga crisi kolossal, la Dc di De Mita, d’accordo con i comunisti e contro i socialisti, arrivò al punto di proporre Fanfani come premier e poi, dopo la decisione a sorpresa dei socialisti di dare il voto a Fanfani, di votare a dispetto contro la fiducia al loro leader storico per ottenere il voto popolare e sancire la rottura con Craxi. All’opposto Craxi voleva collaborare e competere con la Dc allo scopo di preparare un’alternanza in cui i socialisti fossero in grado di essere la guida del blocco di sinistra, liquidando l’egemonia comunista.
Ma sul fatto che l’Italia avesse bisogno di una semplificazione democratica e di una riforma di sistema della governabilità i due leader erano, in modi e con scopi differenti, d’accordo. Il patto ebbe vita breve perché De Mita perse la sua battaglia interna nella Dc e fu defenestrato da Andreotti, Forlani e Gava. E Craxi si chiuse nella logica del pentapartito, aspettando che il pallino del governo gli tornasse in mano. Cosa che non avvenne perché si scatenò l’inferno giudiziario e cominciò la storia trentennale del conflitto con la magistratura, fino agli esiti finali dell’antipolitica e del casino generalizzato a partiti morti e sepolti. Il crollo del Muro di Berlino e la fine della Prima Repubblica coincisero e la sincronia fu tutt’altro che casuale e fu molto significativa. Nonostante il fallimento strategico generale, e il successivo ventennio di berlusconismo e antiberlusconismo, di maggioritario attuato e insieme negato, se l’Italia ha potuto avere un barlume di governabilità con gli esecutivi di Amato, Ciampi, Berlusconi, Prodi, D’Alema, Monti e infine Draghi, dopo la parentesi grottesca del governo populista e antipolitico, lo si deve a una riforma intitolata, con Craxi, a Ciriaco De Mita. Ci fosse ancora il voto segreto sulle leggi di spesa, saremmo membri secondari dell’Unione degli stati del Mediterraneo meridionale, composta di un solo paese, il nostro, la Magna Grecia.