Così l'Italia si prepara a vendere nuove preziose armi a Zelensky
La nuova fase della guerra richiede forniture più flessibili e più coordinate a livello europeo. I contatti diretti tra i produttori e Kyiv, il filtro della Farnesina, il rafforzamento del fondo comunitario. Come cambia il supporto all'Ucraina
Le procedure cambiano perché è il mutare degli eventi che esige di aggiornarle. E in questa costante ricerca di nuove strategie, le presunte furbizie della politica si rivelano di colpo inservibili. E così, quando il 21 giugno Giuseppe Conte, forse confidando in un sostegno di Matteo Salvini, tenterà di mettere in affanno il governo brigando con risoluzioni parlamentari che vorrebbero mettere al bando il varo di nuovi decreti per l’invio delle armi, potrebbe ritrovarsi a constatare che ormai è per altre vie che l’Italia, e insieme a lei i partner europei, forniscono sostegno militare all’Ucraina. L’iter si va infatti semplificando, per così dire: sempre più la richiesta di nuovi dispositivi bellici viene fatta dal governo di Kyiv direttamente alle aziende produttrici, che provvedono alle forniture previa autorizzazione della Farnesina.
A rendere necessario il cambio di passo è stato il precipitare degli eventi nel Donbas. Il martellamento dell’artiglieria russa, e il ripiegamento ucraino, hanno dato consistenza alle richieste che Volodymyr Zelensky continua a rivolgere ai partner occidentali: servono armi migliori per reagire. Scenario che in realtà gli strateghi della Nato avevano preventivato, fin dal vertice di Ramstein di fine aprile. Prevedendo, al tempo stesso, anche una certa flessibilità nella fornitura di armi. E’ un’incognita che coinvolge tutti, del resto, e che costringe anche gli americani a cambiare in corsa i loro piani, per adeguarli alle mosse di Putin. Il grosso investimento per inviare alle forze ucraine i terribili droni Switchblade, maneggevoli e letali negli scontri tra le vie cittadine, s’è rivelato inutile nel momento in cui il conflitto ha abbandonato le cittadine a nord di Kyiv e i quartieri di Mariupol, per trasformarsi in un battaglia in campo aperto che suggerisce ora a Washington di valutare semmai l’invio di droni ben più grandi, come i Gray Eagle, che possono essere armati di missili.
Situazione cangiante, dunque. Ed è per questo che pure in Europa si sono andati studiando processi per rendere meno rigido l’iter di fornitura di armi a Kyiv. Anche l’Italia s’adegua. Il metodo individuato è, cioè, quello di acconsentire a che le istituzioni dell’Ucraina contattino direttamente le aziende produttrici di materiale bellico, acquistando di volta in volta ciò di cui necessitano, e usufruendo di contratti agevolati e forme di pagamento molto diluite nel tempo, rese possibili dal ricorso dei paesi fornitori allo European Peace Facility, un fondo di circa 2 miliardi opportunamente adattato alle esigenze attuali proprio il 23 maggio scorso.
Il tutto, per quanto riguarda l’Italia avviene attraverso una mediazione diplomatica e logistica che coinvolge la nostra ambasciata a Kyiv anzitutto, e poi le istituzioni coinvolte nella partita: il ministero della Difesa, quello degli Esteri e il Dis, cioè i vertici della nostra intelligence. Il filtro principale, in questo senso, compete alla Farnesina. E’ a questa che fa capo lo Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, che approva le operazioni di trasferimento solo se conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia, e comunque “nell’ambito delle direttive di governo e Parlamento”. In questo caso, fa fede il decreto Ucraina approvato dal Cdm a fine febbraio, all’indomani dell’invasione russa. E dunque non c’è bisogno di un’autorizzazione delle Camere per ogni procedura.
La vigilanza, in ogni caso, è serrata, e tiene conto delle indicazioni diramate dai comandi Nato. Detta brutalmente, la sostanza è questa: le commissioni di armamenti vengono validate solo se quelle armi rispondono alle esigenze tattiche per raggiungere gli obiettivi concordati che l’esercito ucraino deve conseguire. Nel contesto, ovviamente, di un coordinamento con gli Alleati.
E anche così si spiega il perché di questo progressivo cambiamento nelle regole d’ingaggio. Nei primi due mesi gli aiuti arrivati a Kyiv sono avvenuti in modo frenetico, talvolta perfino caotico: ogni paese inviava ciò di cui aveva disponibilità, in modo da non rischiare di lasciare scoperte le proprie Forze Armate, e magari anche ciò di cui doveva disfarsi. All’inizio è servito. Ora, però, c’è bisogno di rifornimenti che siano quanto più possibile chirurgici, esattamente rispondenti alle specifiche necessità del momento. Per questo si è deciso di assecondare le richieste dei generali ucraini, sotto ovviamente la supervisione Nato. Per l’Europa, in quest’ottica, un ruolo molto importante lo gioca Igor Zhovkva, vice capo di gabinetto di Zelensky e suo consigliere diplomatico: è lui che coordina, con ruoli da plenipotenziario, i colloqui con funzionari di ambasciate e ministeri dell’Ue, è lui che si fa carico, per lo più, di dare forma esatta alle richieste di aiuto che arrivano da Kyiv.
Ovviamente, l’invio di nuove armi, e di armi più sofisticate, richiede anche un salto di qualità nell’addestramento dei soldati ucraini chiamati a utilizzarle. E anche qui, si va affermando un metodo diverso da quello adottato inizialmente. Nel senso che le esercitazioni verranno svolte sempre più al di fuori dell’Ucraina. Troppo alto il rischio di incidenti, troppo complessi i trasferimenti di funzionari americani e britannici – i più attivi, nel training – verso est, fino alle soglie del Donbas. Molto più sicuro, e più comodo, fare arrivare delle truppe scelte di Kyiv in paesi Nato, soprattutto in Polonia e in parte in Romania, e iniziarle lì all’uso dei nuovi dispositivi. Anche l’Italia, per quel che potrà, farà la sua parte.