la moltiplicazione delle liste
Dal prototipo di Di Pietro alle migrazioni dei 5 stelle. Il qualunquismo dei valori
Quando cambiano casacca, i politici, dicono di farlo per ritrovare le origini. E mai come in questi trent’anni, dalla fine della Prima Repubblica a oggi, i partiti hanno parlato tanto di identità e mai sono apparsi più indefinibili, ondeggianti, indistinguibili.
All’approssimarsi delle elezioni politiche torna a verificarsi in Italia, per l’ennesima volta, un fenomeno tipico di tutti i paesi in crisi istituzionale: la moltiplicazione dei partiti. Di solito, per ovvie ragioni, capita nelle fasi di transizione da regimi monopartitici a democrazie pluralistiche. Da noi è ormai un rito che precede tutte le principali campagne elettorali, a un ritmo tale da sfiorare il paradosso borgesiano della cartina in scala uno a uno: praticamente un partito per abitante.
Un fenomeno simile si è verificato nei paesi dell’est all’inizio degli anni Novanta, con la transizione dal comunismo alla democrazia. In quella fase iniziale, sommamente confusa, in Polonia spuntò persino il partito dei proprietari di videoregistratore. Non casualmente, in quegli stessi anni, in Italia crollava l’intero sistema politico – Prima Repubblica, democrazia dei partiti o comunque lo si voglia chiamare – e iniziava anche qui una complicata “transizione” istituzionale. Il guaio è che la nostra non è ancora finita. Eppure, per quanto in questi giorni la lettura dei giornali e soprattutto la visione dei talk-show possa farne dubitare, nel campo delle democrazie occidentali noi c’eravamo già.
Ho qualche idea su cosa di preciso sia andato storto, sulle ragioni per cui la nostra transizione non ci abbia mai effettivamente transitati da nessuna parte, come una specie di traghetto impazzito che torna sempre al punto di partenza (“il traghettatore ebbro” sarebbe un buon titolo per una storia della cosiddetta Seconda Repubblica, e di tutto ciò che ne è seguito, cioè niente); ma prima vorrei parlare di quello che è andato dritto, almeno da un certo punto di vista. In altre parole: delle costanti. La prima costante è Michele Santoro, l’inventore di “Samarcanda” e di tante altre epiche trasmissioni televisive – epiche, s’intende, nel senso letterale, e letterario, di “attinenti alle grandi narrazioni poetiche, volte all’esaltazione degli eroi” – protagonista di momenti indimenticabili della storia della tv tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Per dire giusto i primi due che vengono subito in mente: quando chiese in diretta a una piazza di Palermo, testualmente, “siete contenti che Salvo Lima è morto?”, rilanciando un interrogativo di Antonello Venditti (a dodici ore dall’omicidio del politico siciliano), e quando nel suo studio Leoluca Orlando accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le prove dei casi di mafia più scottanti (nell’ambito di una campagna di delegittimazione violentissima, durata anni, che non impedirà a nessuno dei due, né a Orlando né a Santoro, di ergersi a campioni dell’antimafia e strenui difensori dei giudici, anche dopo la strage di Capaci).
Nella Seconda Repubblica qualcosa è andato storto e qualcosa dritto, almeno da un certo punto di vista. La prima costante è Michele Santoro
L’uomo che ha fatto da levatrice e tenuto a battesimo tutti i movimenti della cosiddetta società civile germogliati da allora in poi, a cominciare proprio dalla Rete di Orlando, è dunque tornato al lavoro. La breve stagione di oscuramento era seguita ad alcuni per lui inusuali insuccessi televisivi, e ad ancor più singolari ripensamenti politici: gli anni del grillismo al potere, di cui proprio sul Foglio, in un’intervista a Salvatore Merlo, confessò di sentirsi in parte responsabile, come patriarca del populismo. Ma su questo torno tra poco.
Ed eccolo dunque di nuovo in prima linea. Qualche giorno fa, a margine di una surreale conferenza stampa con Sabina Guzzanti dedicata alla crisi internazionale, conferenza in cui tra l’altro ha accusato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, di essere troppo “filoamericano” e ha proposto di sostituirlo con “un francese o un tedesco” (mancava solo il cinese, che nelle barzellette c’è sempre), Santoro si è detto tra l’altro dispiaciuto dell’assenza di Alessandro Orsini e Marco Travaglio alla sua recente iniziativa pacifista in un teatro romano. Quanto all’obiezione dell’inviato di “Non è l’Arena” che lo intervistava, secondo il quale in tal caso gli avrebbero dato del “filo-orsiniano”, ha replicato con quella punta di civetteria che in effetti gli è stata spesso attribuita, e forse anche un filo piccato: “E’ la cosa più facile da dire di qualcuno. Prima viene filo-putiniano, secondo viene filo-orsiniano… filo-Santoro non lo dicono, forse spaventa questa cosa, perché se uno è filo-Santoro, dice, chissà, magari fanno un partito, e allora diventa un problema”. Stefano Cappellini ha sostenuto su Twitter che sbaglia chi si meraviglia delle sue posizioni sull’Ucraina, perché “Santoro, grande autore di tv, non è cambiato in nulla. Grillo, Travaglio, De Magistris, Ingroia, li ha lanciati tutti lui, è il Pippo Baudo del populismo italiano”.
Che sia il Pippo Baudo del populismo italiano o il Mike Bongiorno della politica internazionale, si vede comunque che non è l’unica costante di questa storia. Grillo, Travaglio, De Magistris, Ingroia: l’elenco, forse anche a causa dei limiti naturali di un tweet, risulta persino approssimato per difetto. Prima di Beppe Grillo, per esempio, ci fu il partito di Antonio Di Pietro, una sorta di Movimento 5 stelle uno punto zero. Non per caso il blog dell’ex pm di Mani pulite fu il primo prototipo su cui si esercitò Gianroberto Casaleggio (Di Pietro però, a differenza di Grillo, non accettava di farsi dettare la linea da lui, cioè dai like, e per questo si arrivò presto a una rottura tra i due). Già il nome del partito, l’Italia dei valori, era una perfetta sintesi dello spirito del tempo. Pure la retorica dei valori, infatti, è una costante di questa lunga stagione. Ancora più meravigliosamente simbolico il fatto che venisse fondato a Sansepolcro (il comune toscano, non la piazza di Milano, perché la storia si ripete sempre due volte, eccetera).
L’Italia dei valori, una sorta di M5s uno punto zero. Non per caso il blog di Antonio Di Pietro fu il prototipo su cui si esercitò Gianroberto Casaleggio
Quanto a Travaglio, si potrebbe discutere se il suo “scopritore”, vale a dire il primo a individuarne il talento giornalistico e a valorizzarlo come meritava, sia stato effettivamente Santoro, o qualcuno dei pm che in questi anni avrebbero costantemente affiancato entrambi, con alterne fortune, nelle loro avventure televisive e politico-editoriali. Vedi il caso del meno fortunato tra tutti, Antonio Ingroia, ex pm antimafia protagonista di inchieste clamorose, finite perlopiù ingloriosamente, dal processo Andreotti all’incredibile mischione della cosiddetta Trattativa stato-mafia, poi fondatore di svariati partiti con cui rilanciare e federare la sinistra italiana, tutti finiti tra l’uno e lo zero per cento, poi inviato dell’Onu in Guatemala per la lotta al narcotraffico (incarico precocemente abbandonato, dopo nemmeno due mesi, per candidarsi a presidente del Consiglio alle elezioni del 2013 con uno dei suddetti partiti-movimenti-coalizioni: Rivoluzione civile), quindi ricomparso per breve tempo in televisione nelle vesti di avvocato dell’ultranovantenne Gina Lollobrigida in vertenza con i famigliari sulla sua capacità di gestire il proprio patrimonio, poi ancora, nel 2020, candidato sindaco a Campobello di Mazara, nel trapanese, con l’ambizioso progetto di innescare un “circolo virtuoso che può fare risorgere Campobello dalle sue ceneri diventando modello di riferimento anche nazionale” (è finita 66 a 18 per il sindaco uscente, Giuseppe Castiglione), infine, e siamo finalmente ai giorni nostri, ritornato agli onori delle cronache per il suo appoggio alla candidatura dell’ex leghista (no vax, no euro, sì Putin) Francesca Donato, a sindaco di Palermo. A dimostrazione di come le svolte di questa grande telenovela non siano meno notevoli delle sue numerose costanti.
Antonio Ingroia, dalla Rivoluzione civile alla vertenza di Gina Lollobrigida. Ora appoggia la No vax Donato a sindaco di Palermo
Del resto, non è questo il cuore del meccanismo narrativo delle telenovele, la ragione per cui risultano al tempo stesso così avvincenti e insieme rassicuranti, sempre uguali e sempre diverse? Il segreto è tutto lì, è ovvio, in quella costruzione perfetta che fa sì che tu non possa perderne una puntata e che al tempo stesso, se ne perdi cento, tu possa ritrovare subito il filo, perché di fatto non è successo niente: chi era morto tragicamente è misteriosamente risorto, chi era stato messo in galera ne è uscito, chi era precipitato dalla cima di una montagna è stato salvato da un sanbernardo e chi si era sparato un colpo in testa in realtà – si è scoperto alla centounesima puntata – se l’era solo sognato. E ogni cosa torna al suo posto, che di fatto non aveva mai lasciato. Non ci credete? E allora rispondetemi: chi è, oggi, il sindaco di Palermo?
Proprio lui. Leoluca Orlando. Già sindaco democristiano della città dal 1985 (nessun refuso: millenovecentottantacinque) al 1990, quindi per la Rete dal 1993 al 2000, e poi di nuovo dal 2012 a oggi, dopo essere stato anche coordinatore dell’Italia dei valori dipietresca, nonché tra i fondatori dell’ingroiana Rivoluzione civile, insieme a un altro ex pm dai dubbi risultati giudiziari ma dal sicuro successo mediatico: Luigi De Magistris (anche lui già transitato per l’Italia dei valori, e per una decina di altri partiti e movimenti consimili, buona parte dei quali da lui fondati). Siccome ogni scherzo è bello quando dura poco, e l’ho già fatta troppo lunga, risparmio al lettore l’elenco puntuale di tutti i partiti e movimenti fondati da ciascuno dei summenzionati valorosi rivoluzionari della società civile, le cui maggiori iniziative sono state di volta in volta documentate o direttamente promosse da qualche trasmissione di Santoro, da qualche giornale di Travaglio, da qualche manifestazione di Micromega, con tutto il resto della solita compagnia di intellettuali, attori, artisti e pubblici ministeri che da trent’anni anima questo interminabile processo di rifondazione, ricostruzione, rinascita di una nuova sinistra (sempre quella), ma a volte anche di una nuova destra, e che forse dovremmo più esattamente definire, come mi capita spesso di dire, ricreazione. Una ricreazione infinita. Per loro, s’intende.
Per un po’, tanto fermento è stato assorbito dall’esplosione del Movimento 5 stelle. Il problema è che all’esplosione del suo successo elettorale è seguita l’esplosione del suo gruppo parlamentare, che come noto in questi anni ha perso oltre cento componenti, disseminandosi in tutti, dicasi tutti i partiti (da uno degli ultimi censimenti mancava solo la Südtiroler Volkspartei). In breve, mentre il movimento andato al potere giurando di non volersi alleare con nessuno, avendo fondato il proprio successo proprio sulla denuncia degli altrui “inciuci”, si alleava con tutti, in tutte le possibili combinazioni, pur di restare al governo, i suoi componenti aderivano direttamente a tutti gli altri partiti, dall’estrema destra all’estrema sinistra, pur di restare in parlamento. Ovviamente tutti e ciascuno di loro giurando di farlo per restare fedele ai valori originari del movimento. Evidentemente, gli uni e gli altri finivano così per darsi ragione a vicenda. Tanto che forse nella famosa e immancabile “carta dei valori” del Movimento, Giuseppe Conte avrebbe fatto meglio a cavarsela con un’agile parafrasi di Groucho Marx: “Questi sono i nostri valori, se non vi piacciono ne abbiamo degli altri”.
Il M5s in questi anni ha perso oltre cento componenti, disseminandosi in tutti, dicasi tutti i partiti (tranne la Südtiroler Volkspartei)
Mai come in questi trent’anni, dalla fine della Prima Repubblica a oggi, i partiti hanno parlato tanto di identità e di valori, e mai sono apparsi più indefinibili, ondeggianti, indistinguibili. Vale a maggior ragione per coloro che proprio sulla denuncia di tale uniformità avevano puntato tutto. Per un po’ hanno persino rivendicato l’etichetta di populisti – Conte per esempio lo ha fatto spesso, ai tempi del governo con Matteo Salvini – ora tendono più a offendersi; ma forse, alla fine, almeno su questo, hanno una parte di ragione. Forse il termine più esatto, tenuto conto delle loro infinite peripezie, è qualunquismo. Il qualunquismo dei valori.