Draghi detta le linee rosse sull'Ucraina e rinnova l'asse con Zelensky
Si può trovare una formula di compromesso sulla pace, ma sul sostegno militare a Kyiv non discute: a Palazzo Chigi iniziano le manovre in vista delle risoluzioni del 21 giugno per il Consiglio europeo. L'asse con Letta, mentre Conte sembra rinunciare alla battaglia
L’avvio della trattativa è congelato perché tutti sanno che il potere negoziale dei vari contendenti dipenderà in gran parte dal responso delle urne di domenica e da quel che ne conseguirà. Però, in questa danza sul posto che da tempo è iniziata in vista delle comunicazioni di Mario Draghi al Senato del 21 giugno, da Palazzo Chigi hanno fatto sapere che di margini di trattativa ce ne sono fino a un certo punto: perché va bene provarsi in esercizi di doroteismo per non scontentare il duo pacifista Conte&Salvini, ma sulla fermezza nell’impegno a sostenere, anche militarmente, l’Ucraina, su quello non si scherza. E la sponda l’hanno trovata subito in Enrico Letta, che mediatore lo è per definizione, ma solo “lungo la linea tracciata Mattarella”.
E’ da un po’ di giorni, in effetti, che il segretario del Pd ha preso ad aggiungere il nome del capo dello stato a quello del presidente del Consiglio, ogni volta che lo si interroga sulla condotta da seguire sulla faccenda russa. “La linea di Draghi e Mattarella”, ripete Letta. Endiadi non casuale, almeno a fidarsi delle voci di certi deputati che, in questi giorni di campagna elettorale, lo hanno sentito sospirare, in uno sbuffo a metà tra il fastidio e la celia, a proposito di certi esponenti della sinistra che sempre lodano il presidente della Repubblica quando parla, salvo però riservarsi di non ascoltarlo quando parla della guerra e delle scelte necessarie che impone.
Tra le quali, ovviamente, c’è anche il rispetto degli impegni presi con gli alleati atlantici. E di qui passano le linee rosse indicate dal sottosegretario alla Presidenza, Roberto Garofoli, nei colloqui preliminari di questi giorni che riguardano le risoluzioni da votare alla vigilia del Consiglio europeo del 23 e 24 giugno prossimi. Per cui, se l’esaltare il concetto di “escalation diplomatica”, se l’invocare “lo sforzo diplomatico dell’Italia, in prima linea per una soluzione di pace”, se insomma tutte queste formule di buona creanza servissero a rassicurare Salvini e Conte, a dare loro qualcosa da esibire ai loro gruppi parlamentari, si proceda pure.
E però non ci potranno essere cedimenti sul fronte del sostegno all’Ucraina. Di certo non sulla questione della candidatura a stato membro dell’Unione europea: dal gabinetto di Volodymyr Zelensky, ancora nelle scorse ore, sono arrivate nuove richieste di fermezza, nuove dichiarazioni di apprezzamento. “Perché lo sponsor dell’Italia è fondamentale per convincere anche gli altri partner”, spiegano da Kyiv, dove non si è abbandonata affatto l’idea di accogliere, in una iniziativa diplomatica “dal forte valore simbolico”, Draghi insieme a Emmanuel Macron e Olaf Scholz, in un’unica visita con data da definire.
Né ci saranno flessioni sul piano militare. Il prolungamento dello sforzo italiano, della sua intelligence e del suo comparto industriale, a sostegno della causa dell’esercito ucraino, dovrà essere ribadito. Questo, almeno, è il dispaccio che da Palazzo Chigi è stato diramato agli ambasciatori di questa trattativa. E così si spiega quel certo disincanto con cui Enzo Amendola, responsabile dei rapporti dell’esecutivo con l’Ue, ha osservato le convulsioni grilline dei giorni scorsi, convinto com’è, del resto, che lo stesso Luigi Di Maio, lì sulla tolda della Farnesina, da Draghi è stato catechizzato pure lui. Senza contare, poi, che una settimana dopo il Consiglio europeo, ci sarà il vertice Nato di Madrid, quello che di fatto formalizzerà la procedura d’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza atlantica. E allora si capisce che Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, abbia convenuto con Letta che no, una eventuale, anche solo parziale, rimessa in discussione del sostegno militare a Kyiv non sarebbe affatto un buon viatico per il governo verso quel summit.
Di qui dunque la fermezza di Letta. Che con Conte, in questi giorni, ha avuto modo di sentirsi. Hanno parlato di amministrative e di alleanze, ma la questione della guerra è stato il rumore di fondo che quelle conversazioni accompagnava. E il leader grillino s’è ritrovato dunque senza alcuno spazio di manovra che non fosse quello di chiederlo, quello spazio, a Salvini, di concordare col segretario del Carroccio una eventuale operazione di sabotaggio. Un po’ troppo temeraria, come mossa, se nello stesso tempo corri dietro ai candidati del Pd per accaparrarti un po’ della loro possibile vittoria alle urne, per nascondere l’irrilevanza di un M5s che sui territori è al collasso. Giorni fa, per dire, anche il segretario del Pd di Napoli, quel Marco Sarracino che è di credo orlandiano, ed è uno che nell’alleanza rossogialla ci crede davvero, citando le decine di patti stretti col M5s un po’ dovunque nell’area vesuviana, a Letta ha ricordato che “sì, è vero che noi non abbiamo alternative all’intesa col M5s, ma è anche vero che loro, quando non sono con noi, non governano da nessuna parte”. Quasi un ultimatum, insomma. Altro che deporre le armi.
L'editoriale dell'elefantino