Perché il referendum ci ha ricordato chi sono i falsi amici del garantismo
La battaglia contro il mostro giustizialista comprende anche un dovere: smascherare i finti nemici della libertà. Appunti, dopo il flop dei quesiti sulla giustizia, dal formidabile libro di un professore di Diritto
C’è un libro eccezionale, appena pubblicato da Baldini+Castoldi, che ogni garantista rimasto deluso dal referendum sulla giustizia, deluso per come è finito, deluso per come è stato organizzato, deluso per come è stato sputtanato dai finti amici della buona giustizia, avrebbe il dovere di leggere con urgenza. Il libro, neanche a dirlo, si intitola “Garantismo”. L’autore è un professore emerito di Diritto civile dell’Università di Genova, Vincenzo Roppo. Il volume è il primo saggio a nostra memoria interamente dedicato ai temi del garantismo. E il succo del libro di Roppo può essere sintetizzato mettendo in luce due punti importanti, utili per chi, dopo il risultato del referendum, vorrà portare avanti senza ipocrisie e senza imposture sane battaglie contro un mostro chiamato giustizialismo. La prima questione riguarda le ragioni che fanno dell’Italia un paese che soffre un grave deficit di garantismo. La seconda questione riguarda le ragioni che fanno di molti garantisti dei finti nemici del giustizialismo.
Il garantismo, dice l’autore, non potrà mai affermarsi se i garantisti non avranno il coraggio di mettere le mani nella carne viva dei problemi. E i problemi che fanno oggi dell’Italia un paese incapace di difendere il garantismo sono molti, diffusi e pericolosi. C’è un problema, dice Roppo, legato non solo al processo mediatico, alle oscenità della gogna, ma anche a un ordinamento che offre ai magistrati eccessivi poteri discrezionali. Questo accade perché vi sono reati vaghi, fumosi, come quelli associativi, per i quali si tende a punire qualcuno più per una sua qualità personale che per un fatto realmente commesso: “Postulato del garantismo – dice Roppo – è che la persona sia punita per ciò che fa, non per ciò che è, mentre con i reati associativi la differenza sfuma: il principio garantista della stretta legalità o tassatività delle incriminazioni penali esige la massima precisione, chiarezza, univocità nella definizione legislativa dei reati: laddove invece termini come ‘partecipare’ o ‘fare parte’ sono così sfumati e sfuggenti da renderne equivoco il significato e incerta l’area di applicazione”.
E questo accade perché, in Italia, vi è una quantità folle di norme incriminatrici: seimila circa, oltre a quelle previste nel codice penale. “Molte di queste norme – dice Roppo – sono approvate con formulazioni vaghe: esempio tipico è l’indecifrabile delitto di traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.)”. E da dove nasce questo tsunami di norme vaghe? Nasce da una consapevole scelta. “Sui temi più sensibili per l’opinione pubblica, come la corruzione, la violenza contro le donne, la pedopornografia, l’ansia di rappresentare le istanze punitive dei cittadini induce le maggioranze parlamentari alla costruzione di ipotesi fortemente indeterminate che servono non solo per punire, ma soprattutto per investigare, per conoscere e per far conoscere. Sono quindi intenzionalmente indeterminate proprio per allargare al massimo le possibilità inquisitorie”.
E questo cosa comporta? Semplice: “All’ombra di intricate selve normative cresce una giurisdizione oscura, quella che consegna al giudice l’improprio potere di costruire la fattispecie incriminatrice per il caso concreto. In sostanza le norme indeterminate, intrecciate a quelle processuali, funzionano nella pratica quotidiana come ‘mandati a conoscere’, come autorizzazione a introdursi nella vita dei cittadini”. Si deve dunque, dice Roppo, in larga misura al populismo penale – praticato da significativi settori del sistema politico come facile mezzo di conquista del consenso popolare – se il nostro ordinamento dei delitti e delle pene segue da tempo una linea di sviluppo poco compatibile con i princìpi del garantismo. E l’elemento interessante offerto dallo studioso come spunto di riflessione non è cosa deve fare la magistratura per cambiare se stessa, tema importante naturalmente, ma è cosa la politica può fare, anche senza referendum, per evitare di trasformare i magistrati in custodi più del codice morale che del codice penale.
Il saggio di Roppo offre poi molteplici spunti di riflessione. Invita a diffidare dei dibattimenti costruiti solo per offrire una rappresentazione scenica del processo e Roppo usa parole molto critiche anche per quei maxi processi all’interno dei quali vi è un uso propagandistico dello strumento processuale. Invita a diffidare di tutti coloro che non si battono per prevenire l’apertura di processi che non meritano di essere aperti, processi di ogni tipo, e che non si rendono conto che parte della cultura garantista è “risparmiare che qualcuno abbia a patire senza ragione il male del processo”. Invita a osservare con la giusta attenzione tutti quei pm che in modo irresponsabile si sono specializzati nell’avviare “inchieste poi naufragate per la constatata inconsistenza dell’ipotesi accusatoria, ma che intanto espongono ingiustamente l’indagato al male del processo, meritandosi il nome di ‘inchieste killer’”. Invita a non chiudere gli occhi di fronte al processo mediatico che “è sovente veicolo di lesione delle garanzie dovute a fondamentali diritti della persona come l’onore, la riservatezza, l’immagine” e che troppo spesso coinvolge nel tritacarne “persone estranee a ogni imputazione: come quando si pubblicano conversazioni intercettate fra l’imputato e i suoi interlocutori, le cui parole finiscono in pasto al pubblico; o parole dell’imputato, relative a vicende e persone che non hanno nulla a che fare col processo”, fatti che avvengono non per “la loro oggettiva pertinenza alla materia del processo o la loro rilevanza pubblica, ma piuttosto per la loro capacità di soddisfare futili se non morbose curiosità del pubblico. E questo ne esalta la potenzialità lesiva: perché quanto più i fatti o le parole di una persona suscitano curiosità morbosa, tanto più significa che sono fatti o parole della sua sfera intima, meritevoli quindi di particolare protezione”.
Il garantismo, dice l’autore, non potrà mai affermarsi se non si considera tutto questo. E se non si considererà un altro problema: fino a quando sarà difeso dai suoi falsi amici, il garantismo non potrà mai essere difeso davvero. In molti, a destra, a sinistra, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni passando per il M5s e anche per il Pd, si dicono garantisti a parole, ma poi in “vari modi maltrattano l’idea del garantismo, correttamente e coerentemente intesa: sono sedicenti garantisti che predicano e in qualche misura anche praticano il garantismo, ma più o meno occasionalmente finiscono, magari senza accorgersene, a razzolare nel cortile dell’anti garantismo; o garantisti che declinano il garantismo in termini così smaccatamente impropri, da restituirne un’immagine deforme”. Garantisti che difendono gli amici indagati ma poi speculano sulla pelle dei carcerati. Garantisti che attaccano i giustizialisti ma poi riempiono l’ordinamento di norme che moltiplicano i poteri delle procure.
Garantisti che si dicono a difesa dello stato di diritto ma poi usano le leve del circo mediatico per ottenere un beneficio elettorale. Per combattere il giustizialismo non è sufficiente riconoscere quali sono le degenerazioni prodotte dal circo mediatico. Ma è necessario prima di tutto guardare in faccia i falsi amici del garantismo e ricordarsi che chi difende le libertà a metà non è parte di una soluzione: è parte di un problema. Il referendum di ieri, se vogliamo, ha contribuito a ricordare anche questo. E’ ora di svegliarsi.