Salvini tentenna di fronte a chi gli dice: "Usciamo dal governo". La Meloni teme Verona
Il capo della Lega nella morsa dei suoi. Rixi dà la colpa al governo: "Sostenere Draghi non paga". Fedriga sostiene il contrario: "Il lavoro dei governisti viene mortificato". Lui leabora un diversivo: parlare di pensioni e scala mobile. La leader di FdI lo stuzzica ("Esci da questa maggioranza"), ma sa che su Sboarina si gioca molto
A un certo punto l’ha anche buttata lì, l’ipotesi. Ma più come un alibi, che come una proposta. “Se qualcuno pensa che la soluzione sia uscire dal governo, accetto consigli...”. E del resto Matteo Salvini l’analisi della sconfitta, in Via Bellerio, l’ha fatta come barcollando in un esercizio di equilibrismo. Perché intorno a lui aveva chi, come quell’Edoardo Rixi che vede FdI scavalcare il Carroccio anche nella sua Genova, dice apertamente che “non paga stare al governo, specie in un governo come questo, che non riesce a risolvere i problemi economici del paese e che in più ci sabota anche la battaglia sul referendum”. E chi invece, come Massimiliano Fedriga, nelle scorse ore è andato ripetendo che il lavoro di governatori e sindaci e ministri non solo “non viene valorizzato”, ma perfino “mortificato” da chi ingaggia gente come Antonio Capuano per farsi spiegare la geopolitica. Salvini sta nel mezzo e tentenna. E Giorgia Meloni, che lo vede caracollante, prova a strattonarlo: “Fossi in lui, uscirei dal governo”.
Non lo farà, il capo della Lega. Lo sa anche la Meloni. Ma lei sa pure che è su quello che deve insistere. Ed è il dispaccio che consegna ai suoi: “Giorgia ha capito che non è tanto lo stare all’opposizione, quanto il non compromettersi con la sinistra, ciò che gli elettori apprezzano. Per questo oggi il sostenitore del centrodestra si identifica con noi”, sintetizza il senatore Giovan Battista Fazzolari. Del resto FdI supera la Lega un po’ dovunque, da Palermo a Monza. Ed è forse, almeno in prospettiva, il risultato a cui la Meloni più teneva, almeno stando alle parole che Ignazio La Russa condivideva alla viglia del voto con alcuni suoi confidenti. “C’è una sola svolta che potrebbe cambiare l’inerzia elettorale che ci vede crescere”, era il senso del ragionamento del senatore meloniano. “E quella svolta starebbe nell’accordo reale tra Berlusconi e Salvini: se il Cav. consegna davvero a Matteo le chiavi del centrodestra, le cose cambiano”. Poi, racconta chi ha assistito alla scenetta, La Russa esibiva una pausa di studiata teatralità, e sospirava: “Ma per fortuna Berlusconi non è mai stato fesso”. Come che sia, oltre che nella furbizia del Cav., il conforto la Meloni lo ha trovato nei numeri: perché non c’è nessuna grande città, neppure al nord, in cui la somma algebrica di Lega e FI renda ininfluente FdI. Se il laboratorio doveva essere la Sicilia, allora anche lì l’esperimento è fallito, perché il contenitore nazionalista di Salvini, quel “Prima l’Italia” con cui si pensava di poter rottamare l’Alberto da Giussano, a Palermo si sfascia prima ancora di mettersi in moto.
E però questa, ribaltata, è anche la scommessa di Salvini. “Vuole andare da sola? E quante città vince, da sola?”, sbuffa il segretario coi suoi. E la minaccia ha un obiettivo preciso: Verona. Perché gran parte dell’entusiasmo della Meloni verrebbe smentito, se davvero nella città scaligera l’uscente Federico Sboarina – uscito assai ammaccato, invero, dal primo turno – venisse sconfitto al ballottaggio da un centrosinistra che si ritrova intorno a Damiano Tommasi. “Io a sostenere Sboarina, con Zaia, ci sono andato apposta: così che nessuno possa accusarci di nulla”, maligna Salvini. Ed è un messaggio in codice che la Meloni non fa fatica a decrittare: “Vuole farci pesare il suo sostegno, vuole ricattarci”, dicono in FdI, dove già preparano la contromossa tattica: “E’ un modo per indurci a cedere in Sicilia su Musumeci? E allora noi non appoggiamo Fontana in Lombardia”.
Il resto, è una giornata che i due alleati riluttanti vivono in parallelo, ma percorrendo sentieri assai diversi. La Meloni riunisce i suoi in Via della Scrofa, apre la sede romana di FdI alla stampa e lo fa con un’amabilità raramente riservata alla curiosità dei cronisti: ci tiene a mostrare un partito in salute, insiste nell’accreditare “la nostra classe dirigente”. Salvini la brutta aria l’aveva fiutata da tempo, e infatti già venerdì aveva convocato a Milano un consiglio federale con, all’ordine del giorno, la situazione economica del paese e l’approvazione del bilancio del partito. “Il giorno dello spoglio?”, avevano alzato il sopracciglio i suoi parlamentari. Si è capito insomma che si andava alla ricerca di un diversivo. E allora eccolo, a scrutinio appena iniziato, scendere in sala stampa, a Via Bellerio, per chiedere al governo una svolta: la pace fiscale fino ai dieci mila euro, quota 41 sulle pensioni, la riesumazione di una scala mobile per contrastare l’inflazione. A discuterne, per l’occasione, ha voluto anche Claudio Borghi e Alberto Bagnai. Ma chi mastica di economia nota subito che tutte le questioni citate sono roba da legge di Bilancio: quindi fino a dicembre si resta con Draghi? Pare scontato. Anche se il prossimo parapiglia già s’intravede: “Vogliamo che la risoluzione del 21 e 22, alla vigilia del Consiglio europeo, metta al centro la diplomazia e non i carri armati”, dice Salvini. Che ha nominato perfino un gabinetto di guerra, cioè di pace, per l’occasione. Ne fa parte anche il capogruppo Riccardo Molinari, che tra tutti è il più scettico sull’opportunità di forzare la mano: perché, lui che conosce gli umori del Parlamento, sa che se si gioca col fuoco dell’antiamericanismo, si rischia di bruciarsi. “Può succedere di tutto”, ha spiegato. Può succedere perfino che, su un tema del genere, a sostenere il governo ci pensi invece la Meloni, che starebbe invece all’opposizione. Roba da labirintite, altro che stare in equilibrio.