Sketch pericolosi

Padova è l'acme della vergogna leghista. Ma per Salvini tutto va bene

Il candidato scelto dal segretario, inviso a tutto il Carroccio locale, ha chiuso la campagna elettorale canzonando i problemi di salute del sindaco di centrosinistra. Che poi stravince. E ora il Veneto verde ribolle

Francesco Gottardi

Alla fine, perfino un equilibrista come Luca Zaia non ce l’ha fatta a trattenersi. “Siamo stati giustamente puniti dove il centrodestra si è presentato diviso”, il governatore del Veneto ha commentato il flop elettorale in regione. “Peggio ancora se la separazione è stata anticipata da dibattiti spesso poco comprensibili ai cittadini”. Eccola, la doppia stoccata. Verona, simbolo del disastro leghista. E Padova, quello dell’imbarazzo. Lì la coalizione era unita attorno al nome di Francesco Peghin, ma solo pro forma: i cartelloni nelle piazze come fogli di giornale per nascondere una voragine. Quella scatenata dall’ostinazione di Matteo Salvini e del commissario regionale Alberto Stefani, mentre il Carroccio locale si rivoltava fino a rischiare l’epurazione, pur di avere un altro candidato. Risultato: Peghin è stato spazzato via. 33,6 per cento dei voti, contro il 58,4 del sindaco uscente Sergio Giordani. Eppure, anche a bocce ferme, il segretario insiste: “C’è grande soddisfazione per la nostra performance in Veneto, dove la Lega ha confermato i suoi 14 sindaci uscenti guadagnandone altri 8”, tutti in comuni minori. “E a Padova non abbiamo sbagliato nome. Anzi”. D’altronde, detto da chi citava Dmitri Medvedev come uomo di pace.

   

Perché Peghin, ex presidente di Confindustria locale, non si è rivelato soltanto poco carismatico e inefficace. Protagonista di una campagna elettorale angosciata e all’insegna del vittimismo, “in città si è instaurato un clima d’odio contro di me”, si lamentava l’uomo imposto dall’alto. Salvo poi perdere la faccia all’ultima curva. Nella settimana prima del voto, il candidato di centrodestra ha fatto di tutto per strappare un dibattito conclusivo con l’avversario. Ma Giordani, forte dei sondaggi e di un appoggio civico trasversale, ha declinato l’invito. Pura logica elettorale. Così Peghin ha fatto da sé: al comizio finale in Prato della Valle si è inventato un Giordani suo. Da brividi. A un certo punto sul palco appare Ludovico Antonio Dodi, profilo ben noto agli ambienti sovranisti padovani. E dà inizio a un’agghiacciante imitazione del sindaco, prendendolo in giro per la parziale afasia causatagli da un ictus cinque anni fa. Addio politica, decoro, tutto.

    

La scena è resa ancor più pietosa dalla presenza di un’interprete Lis, premurosa di tradurre lo sketch – per altro scarso: sembra più il verso di José Mourinho – al pubblico presente. Che ridacchia, applaude. Come Peghin, si vede nel video ripreso dal Mattino di Padova, che finalmente vince il duello nella sua testa. Fuori, il caos. Giordani opta per il no comment, ma gli piove solidarietà trasversale. Gli amministratori del centrodestra locale e regionale prendono subito le distanze, “questa non è satira, non è campagna elettorale, non ha nulla a che fare col nostro modo di proporci”. Poi le urne, la debacle, tutti a casa. L’avevano stradetto i leghisti nel territorio, dal sindaco di Noventa Padovana Marcello Bano al pretoriano Fabrizio Boron: “Piuttosto mi candido io”, dichiarava al Foglio il consigliere regionale. O Roberto Marcato, l’assessore bulldog di Zaia che a Padova avrebbe vinto a mani basse. I militanti ne erano sicuri prima, figurarsi adesso. Si mordono la lingua per non esplodere: “Stiamo zitti, sennò a Roma si infuriano”, era la linea durante il silenzio elettorale. Ora Zaia si è dovuto esporre anche per placare gli animi dei suoi.

   

Sipario su Padova. A frittata avvenuta, Peghin anziché scusarsi grida alla trappola: il siparietto della vergogna sarebbe stato improvvisato, a sorpresa, lui non ne sapeva nulla. Ma ormai nessuno gli crede più. Uno sì, in realtà. E chi poteva mai essere.