Il caso
Da Borghi (77 voti) a Panizzut (8): tutti i flop dei salviniani alle elezioni comunali
Da Como a Monza fino a La Spezia, Parma, Verona, Gorizia, Sesto: così i parlamentari della Lega hanno preso una manciata di preferenze. La crisi del Carroccio vista dai territori
Il deputato Claudio Borghi, a Como, ha preso meno voti di quanti tweet produce al giorno contro i vaccini, dittatura del Covid, Bce e complotti vari: 77. La capolista della Lega, sempre nel comune del famoso ramo sul lago, era Alessandra Locatelli, ministro con il Conte I, e ora assessore in regione: 157 preferenze. Di parlamentari e big leghisti travolti da queste amministrative sono piene le cronache locali. E raccontano la crisi di Salvini e del suo partito da un punto di vista laterale che diventa centrale. C’era una volta il culto (ora mezza favola) degli amministratori del nord. Paolo Grimoldi, quattro legislature, a Monza è arrivato sesto (146). Lorenzo Viviani (211), pupillo di Edoardo Rixi e deputato in ascesa, a La Spezia non entra in consiglio comunale. E nemmeno il russofilo Vito Comencini a Verona (278). A Lodi, il senatore Luigi Augussori ha preso 118 voti. La deputata Laura Cavandoli a Parma non entra in Consiglio comunale, idem il collega di Palazzo Madama Maurizio Campari.
Si potrebbe dunque continuare ancora per molto: bisogna registrare gli 8 (otto) voti di Massimiliano Panizzut a Gorizia. O il 10 per cento della Lega ad Alessandria, terra del capogruppo Riccardo Molinari, dove l’assessore regionale Vittoria Poggio, forte di 163 elettori, non metterà piede nell’assemblea comunale se non come ospite. Ecco, dietro al sorpasso di Giorgia Meloni su Matteo Salvini c’è anche il crash di una classe dirigente che funzionava e che adesso ha le batterie scariche, come quelle del leader. In queste elezioni infatti i parlamentari di Fratelli d’Italia si sono tenuti alla larga dalle comunali, eccetto Wanda Ferro a Catanzaro, mentre quelli della Lega, su spinta del segretario, hanno riempito le liste del Carroccio con risultati abbastanza imbarazzanti. “E ora perderemo anche a Sesto San Giovanni e a Monza”, si danno di gomito in Transatlantico, sconsolati, due giovani rampolli del salvinismo, ai vertici del partito e che a Matteo devono tutto. Alla Camera si incontrano i volti trasfigurati dei leghisti, di solito molto baldanzosi nei confronti dei colleghi del M5s. Questa volta no. Alla buvette si ascoltano critiche sottovoce nei confronti “di Matteo che non si sa cosa si inventerà per invertire la rotta”. Da Verona, Flavio Tosi, neoacquisto di Forza Italia, mette a verbale che “Salvini è un po’ frastornato”. Ecco, ma dov’è il capo della Lega che sembra implodere da un momento all’altro? A dati acquisiti un giorno fa ha detto che a settembre deciderà se rimanere al governo perché a chiedergli di staccare la spina sarebbero Luca Zaia e Massimiliano Fedriga. Insomma, sarebbero i principali critici di Salvini a spingere Salvini a mollare Draghi. Peccato che l’Agi, interpellate fonti vicine ai due presidenti di regione, sostenga il contrario. Con tanto di efficace gioco di parole.
“I governatori della Lega restano governativi”. Nel resoconto dell’Agenzia Italia c’è anche un avviso al segretario: non si fanno polemiche in piena campagna elettorale per il secondo turno, ogni analisi va rinviata a dopo i ballottaggi. Salvini passa la giornata chiuso nel suo ufficio al Senato. Si fa vedere in Aula. Spende il tempo a difendersi dal fuoco amico. In particolare dalle interviste al fulmicotone rilasciate dai veneti Roberto Marcato, assessore regionale chiamato dagli amici il bulldog di Zaia, e dall’europarlamentare Toni Da Re. Entrambi con toni diversi gli dicono fra le righe: Matteo, prenditi una pausa, riflettiamo insieme, sul futuro, forse sei un po’ stanchino. L’ex ministro dell’Interno è convinto che alla fine, fra un anno o poco meno, sarà il candidato premier del centrodestra con gloriosa remuntada su Meloni. Si rilassa, si fa per dire, sulla poltroncina di Bruno Vespa. Da dove rilancia l’accordo con Tosi a Verona, anche se Tosi lo ha appena sbeffeggiato, e giura che non vuole cambiare legge elettorale. La novità è che anche il penultimatum a Draghi diventa ricco di subordinate che sgonfiano la minaccia: “Non sono pentito di far parte del governo, ma se non taglia le tasse è dura”. Nella Lega capiscono il momento complicato. Qualcuno sta bussando alla porta di Fratelli d’Italia, alla ricerca di un nuovo inizio per scacciare questo presente.