l'analisi
Perché il ddl Gelmini è un buon passo verso l'autonomia differenziata
Si mettano da parte i pregiudizi e le critiche e si prenda atto che la legge quadro è il primo passo di un decisivo percorso di riforma che darà nuovo slancio ai territori con effetti benefici per tutta la nazione
La notizia del varo del ddl quadro da parte del ministro per gli Affari regionali Mariastella Gelmini ha generato la furibonda reazione degli oppositori dell’autonomia differenziata: dal richiamo alla guerra per stigmatizzare la condotta di chi pensa all’autonomia, alle affermazioni mai argomentate sull’incostituzionalità della legge cornice, dai proclami sulla necessità di fermare la “secessione dei ricchi” alle reprimende contro i circoli viziosi che darebbero origine a quegli stati nello stato, vere e proprie “repubblichette” che porterebbero il paese alla definitiva e irrimediabile catastrofe.
Facciamo quindi un po’ d’ordine. La prima lamentela riguarda l’asserita emarginazione del Parlamento, il quale sarebbe chiamato a ratificare l’intesa tra stato e regione. Peccato che nessuno dica che, in un contesto in cui l’art. 116, terzo comma, della Costituzione stabilisce che la legge statale con cui vengono attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia “è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base dell’intesa fra lo stato e la regione interessata”, la legge quadro segna un importante passo in avanti: essa prevede infatti che lo schema di intesa debba essere trasmesso alle Camere perché sia reso un parere da parte della Commissione per le questioni regionali. Pretendere, come qualcuno vorrebbe, che questo parere sia vincolante metterebbe fuori gioco il Parlamento che, invece, in forza del disposto costituzionale, dovrà approvare (o respingere) il testo, non potendo tuttavia, è la logica a imporlo, emendarlo: se così non fosse la legge non si reggerebbe più, come impone la Costituzione, sull’intesa, ma su un provvedimento diverso da quello condiviso da stato e regione.
La seconda attiene all’effetto disgregativo che le richieste di trasferire molte materie (dalle 23 del Veneto, tutte le possibili, alle 15 dell’Emilia-Romagna) genererebbero, mettendo a rischio l’unità del paese. Ora, a parte il fatto che questa è critica che non può essere mossa alla legge quadro, che non ha la possibilità di ridurre il numero delle aree di competenza devolvibili in forza della norma costituzionale, occorre segnalare che essa si fonda su un artificio retorico, quello teso a nascondere che le intese non riguarderanno il trasferimento di intere materie, ma la devoluzione delle specifiche funzioni che lo stato deciderà, per mere ragioni di efficienza, di trasferire. Si tratta di scelta che consentirà di meglio gestire determinate competenze in forza della più accurata conoscenza del territorio che è propria dei decisori regionali.
La terza concerne i profili finanziari dell’autonomia differenziata, i quali vengono o liquidati perché di complessa costruzione in una situazione in cui la realizzazione del federalismo fiscale è di là da venire o considerati come strumento su cui le regioni del nord farebbero leva per appropriarsi di soldi e potere a scapito dei territori del sud, vittime sottoposte al furore predone di chi vorrebbe trattenere le risorse altrui. Si tratta di osservazioni sempre riproposte che non tengono conto di quanto segue: i) le regioni settentrionali trasferiscono al sud ingentissime risorse (50 mld di euro circa l’anno secondo Svimez, il 18,7 per cento del pil dell’area Mezzogiorno, il dato è impressionante, secondo Bankitalia); ii) le criticate compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, con cui andranno finanziate le nuove competenze regionali, sono previste come fonte di finanziamento nell’art. 119 della Costituzione e non possono essere rideterminate ogni anno in relazione alle spese che le regioni debbono sostenere perché, se così fosse, si trasformerebbero in trasferimenti, questi sì non compresi nell’elenco tassativo delle forme di finanziamento contenuto nel citato art. 119; iii) le maggiori risorse generate dallo sviluppo delle regioni anche grazie al riconoscimento dell’autonomia finiranno, per la parte complementare all’aliquota di compartecipazione, e quindi per la maggior parte, allo stato, con conseguenti effetti positivi per tutti i territori; iv) il vantaggio di cui, secondo taluni, godrebbero le regioni del nord in forza della scelta, necessitata in mancanza dei fabbisogni standard, della spesa storica quale iniziale criterio di determinazione del finanziamento delle nuove funzioni è smentito dai dati sulla spesa statale regionalizzata pubblicati dalla Ragioneria generale dello Stato, che vedono le tre regioni che per prime hanno cercato l’autonomia differenziata agli ultimi posti; v) la favola della spesa che mancherebbe al sud (i famosi 60 miliardi di cui abbiamo già scritto in passato) è il frutto della erronea considerazione di voci, la spesa previdenziale e quella del settore pubblico allargato, che non vanno computate perché collegate ai contributi versati (la prima) e alle scelte di investimento delle aziende pubbliche, necessariamente influenzate da logiche di mercato (la seconda); vi) la pretesa necessità di considerare la determinazione dei Lep quale condizione necessaria per il raggiungimento delle intese è stata smentita dal gruppo di lavoro nominato dal ministro Gelmini e presieduto dal da poco scomparso prof. Beniamino Caravita per l’assorbente ragione che, diversamente, accadrebbe che una delle parti, lo stato, già inadempiente da più di dieci anni, potrebbe rinviare sine die le intese bloccando, in violazione del principio di leale collaborazione, l’attuazione di una norma di rango costituzionale.
Di qui le conclusioni.
Siamo di fronte all’ennesimo tentativo di bloccare, in spregio della Costituzione, la riforma chiesta non più solo da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ma anche da Piemonte, Liguria e Toscana. Tutti egoisti spinti dall’idea di sottrarre risorse al sud? Tutti, malgrado i contrapposti orientamenti politici dei rispettivi governi regionali, tesi a minare ab imis l’unità della Repubblica? Perché sfugge agli oltranzisti difensori di questo status quo che voler impedire alle regioni del nord di tentare di generare maggiore ricchezza (e dunque maggiori risorse fiscali il cui principale beneficiario sarebbe lo stato) sta creando un danno all’intero paese?
Si mettano pertanto da parte i pregiudizi e si prenda atto che la legge quadro è il primo passo di un decisivo percorso di riforma che, fondandosi sul riconoscimento delle autonomie, non potrà che dare nuovo slancio ai territori con benefici effetti per la nazione tutta.
Andrea Giovanardi
Università di Trento