(foto di Ansa)

cattivi a metà

Chi sarà, dal punto di vista della sinistra, il volto buono dei 5 stelle di domani? 

Francesco Cundari

I dem (o chi per loro) ne cercano sempre uno. Per un po’ fu persino Bossi, ma oggi tra Conte e Di Maio il Pd ha un problema di casting

Non c’è partito avversario così avverso in cui la sinistra non sia capace di trovare almeno un volto buono, prima o poi. Un volto buono c’è sempre, fateci caso. Il volto buono della Lega, per esempio, è come tutti sanno Giancarlo Giorgetti. Lo è da talmente tanto tempo che di recente il ruolo ha cominciato a essere insidiato da Massimiliano Fedriga. Perché è un lavoro usurante, una posizione esposta a un fortissimo logoramento, una parte difficile – quella del cattivo che a metà del film improvvisamente diventa buono, o si capisce che in realtà lo è sempre stato – una parte che richiede a chi la interpreti una doppia fatica, per risultare credibile in entrambe le vesti e in tutti i contesti: come la voce rude dei padroncini del nord e come l’insigne statista chiamato a elaborare progetti di riforma costituzionale nei più alti consessi.

 

La Lega, non a caso, è stata una palestra di volti buoni insuperabile, come si conviene del resto a un partito che nel suo complesso ha attraversato mille volte la sottile linea rossa che divide il nemico giurato dall’amico ritrovato, l’avversario acerrimo dall’interlocutore integerrimo, la spina nel fianco dell’Italia democratica dalla “costola della sinistra”, secondo la celebre definizione dalemiana, peraltro più volte semi-smentita, rettificata, precisata. L’ultima, nel 2019, a Sette, così: “E’ una delle tante scemenze messe in giro per poi dire che io considero la Lega di sinistra. Nel 1994 dissi al Manifesto che la Lega era una costola del movimento operaio. Lo affermai perché gli operai votavano Lega”. Versione un po’ riduttiva, che merita forse un passo indietro di qualche decina d’anni. Per essere precisi, all’11 febbraio 1995.

 

“In questa alleanza democratica non solo c’è uno spazio ma c’è bisogno del federalismo democratico della Lega”. Lo disse D’Alema segretario del Pds

 

Intervenendo al congresso straordinario della Lega, l’allora segretario del Partito democratico della sinistra si dice infatti convinto che una “alleanza per una nuova Italia” stia “crescendo nel paese”, una “alleanza democratica in cui ciascuno deve poter stare con le sue idee”, in cui ci saranno “i cattolici democratici”, ci saranno “i laici democratici della migliore tradizione italiana, repubblicana, liberale”, in cui ci sarà “una sinistra che ha avuto il coraggio di rinnovarsi” e “io sono convinto che voi comprenderete che in questa alleanza democratica non solo c’è uno spazio ma c’è bisogno del federalismo democratico della Lega”.

 

La coalizione elettorale, come noto, non si farà mai, ma è interessante notare come nel 1995 occorresse allearsi con la Lega per fermare la minaccia democratica rappresentata da Berlusconi, mentre oggi, potendo, ci si alleerebbe volentieri con Berlusconi per fermare la minaccia democratica rappresentata dalla Lega, cosa che il Partito democratico del resto ha quasi esplicitamente teorizzato, anche in tempi recentissimi, vale a dire nel momento in cui si trova al governo con entrambi (Lega e Forza Italia). Ma forse è ancor più degno di nota che il discorso dalemiano di quasi trent’anni fa partisse dalla rivendicazione del cosiddetto “ribaltone” (come lo aveva bollato la destra), vale a dire dalla scelta di unire i propri voti in parlamento con quelli dei popolari di Rocco Buttiglione e della Lega di Umberto Bossi, pur nella consapevolezza di non poter formare una maggioranza politica omogenea, affinché “si formasse un governo di alto profilo tecnico, di sicura garanzia democratica, per affrontare i problemi più urgenti e drammatici del nostro paese e per consentire al Parlamento di fare le riforme”. Non si può dire che di acqua sotto i ponti ne sia passata molta. Ed era, ripetiamolo, il 1995. Undici mesi dopo le prime elezioni con la nuova legge elettorale maggioritaria, il famoso Mattarellum, che avrebbe dovuto dare al paese la tanto sospirata stabilità di governo. Ma questa, forse, è un’altra storia (sono sicuro, in ogni caso, che il lettore attento alle ragioni sistemiche e istituzionali di tante nevrosi del nostro sistema politico, con le relative coazioni a ripetere, non mancherà di cogliere il nesso).

 

Vale la pena di partire da qui, perché l’elogio delle radici popolari della Lega è un tema ricorrente, che arriva fino ai giorni nostri, con le affettuose parole di Pier Luigi Bersani nei confronti dello stesso Bossi, quando di recente ha ricordato come negli anni Ottanta, da assessore regionale comunista dell’Emilia Romagna, andasse a sentire i suoi primi comizi, rimanendo affascinato da quello che gli sembrava “uno strano personaggio, a metà tra Lenin e Tex Willer”.

 

Il caso limite di Fini. Nel 1993 è capace di delegittimare chiunque gli si accosti, nel 2013 molti gli affideranno le speranze di azzoppare Berlusconi

 

Le mille metamorfosi del Senatùr, come lo chiamavano i giornali ai tempi d’oro, sono comunque nulla in confronto alla parabola di Irene Pivetti. Apparsa alla ribalta come giovane presidente della Camera nel 1994 in posa da cattolica ultra-tradizionalista, la croce di Lorena al collo, il look castigatissimo, la richiesta di spostare dal suo ufficio tutti i quadri di nudo (da Luca Giordano a Mario Sironi), frasi come “la religione permea la mia persona ma non interferirà affatto nel ruolo di presidente della Camera”, per poi riciclarsi come presentatrice televisiva, farsi fotografare in short e tacchi a spillo accanto al tronista Costantino Vitagliano (“un lascito di quando avevo Lele Mora come agente”, spiegherà in seguito, aggravando parecchio la sua posizione) o inguainata dentro una tuta in latex stile Catwoman, con tanto di frusta (“era uno scatto per il calendario di Radio Monte Carlo. C’era anche Emilio Fede travestito da cattivone di 007”), ma soprattutto condurre “Bisturi!”, sorta di favola del brutto anatroccolo ai tempi della chirurgia plastica, con telecamere in sala operatoria, andata in onda col bollino rosso per i minori, tra le proteste del Moige.

 

Ma la nemesi estetico-televisiva è niente rispetto alla parabola politica. Appena si profila la sua elezione a presidente della Camera, cominciano a circolare addirittura accuse di antisemitismo. Riemergono suoi commenti, invero piuttosto riduttivi, a proposito di un raid di due anni prima contro alcuni negozi di commercianti ebrei: “Un rotolo di nastro adesivo, quattro fogli di carta con su stampata la stella di Davide, appiccicati sulle vetrine di qualche negoziante ebreo…”. Ma appena due anni dopo, nel 1996, è espulsa dalla Lega per la sua contrarietà alla secessione della Padania, ragion per cui fonderà un movimento (Italia federale) quasi subito confluito in Rinnovamento italiano (il partito di Lamberto Dini, che poi sarebbe il tecnico di alto profilo chiamato da D’Alema, Bossi e Buttiglione a guidare il governo pochi anni prima) e infine nell’Udeur di Clemente Mastella. E chissà che non sia stata anche la rapidità del suo passaggio da faccia feroce della Lega a volto buono del centrodestra, prontamente accolto nel centrosinistra (e poi di nuovo nel centrodestra), a stimolare la sua curiosità per la chirurgia estetica.

 

Il caso limite, nel centrodestra, resta però sempre e per sempre quello di Gianfranco Fini. Nel 1993 è l’uomo nero capace di delegittimare chiunque gli si accosti, a cominciare da Berlusconi, che per avere semplicemente detto che lo avrebbe votato come sindaco di Roma (se fosse stato romano), viene subito etichettato dalla stampa, per l’appunto, come “il Cavaliere nero”. Esattamente venti anni dopo, alle elezioni del 2013, proprio a Fini molti affideranno, invano, le loro massime speranze di azzoppare Berlusconi, dopo la scissione del Pdl e l’improvvisa mutazione democratica dell’ex segretario del Movimento sociale, per un momento da qualche sondaggista allegro testato persino come possibile leader del centrosinistra. Ma non è certo l’unico caso, come si è visto, in cui la faccia feroce della precedente stagione diventa il volto buono della successiva.

 

Salvini argine democratico contro Meloni? Se vi sembra una battuta, vedrete quando si andrà al voto, com’è verosimile, con l’attuale legge elettorale

 

Non è sempre così facile, tuttavia, decidere chi sia il buono e chi sia il cattivo. Anche il casting ha le sue insidie. Prendete il caso del Movimento 5 stelle. Non è un problema da poco, per la sinistra, specialmente adesso, nello scontro aperto tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, assegnare le parti. Tralasciamo ogni giudizio di merito, politico e personale. Stiamo semplicemente alla tattica. Se foste il consigliere strategico del segretario del Pd, Enrico Letta, con chi gli consigliereste di schierarsi: con il ministro che difende il governo di cui anche il Pd fa parte, e del quale Letta è il più convinto sostenitore, o con il leader politico che lo attacca, che è però anche lo stesso leader politico che il Pd ha sostenuto fino a ieri come presidente del Consiglio, definito da Nicola Zingaretti “punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”, e cento volte confermato dal medesimo Letta quale alleato strategico e compagno di strada ideale?

 

Chi sarà, dal punto di vista della sinistra, il volto buono dei Cinquestelle di domani: il presidente del Consiglio che nel 2018 firmava i decreti sicurezza e chiudeva i porti ai naufraghi insieme con Matteo Salvini, o il ministro che il 18 luglio 2019, esattamente un mese e diciotto giorni prima di giurare anche nel governo successivo, con il Pd, dichiarava in un video: “Col partito che in Emilia Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli io non voglio avere nulla a che fare”? (ma anche il seguito del video, meno famoso e dalla sintassi più incerta, merita di essere ricordato: “...e sono stato in questo anno quello che sicuramente ha attaccato di più il Pd di quanto lo abbiano fatto tutti gli altri partiti, perché forse erano d’accordo su alcuni provvedimenti”).

 

A volte la differenza tra buoni e cattivi è così sottile che si fatica a vederla. Questione di sfumature, sospetti, sondaggi. Oggi Conte o Di Maio (se non tutti e due) rappresentano l’argine a Salvini, dopo esserne stati i principali alleati, domani magari sarà proprio Salvini a rappresentare l’argine democratico contro Giorgia Meloni. E se questa vi sembra una battuta, vuol dire che non avete capito niente della logica del sistema, che è implacabile e non ammette eccezioni. Se domani, come è assai verosimile, si andrà al voto con l’attuale legge elettorale, vedrete. Il bipolarismo di coalizione all’italiana produce infatti al tempo stesso l’illusione plebiscitaria nel vincitore e la reazione contraria di tutti gli altri, sul modello della caccia alla volpe. La redistribuzione dei ruoli sarà, ancora una volta, istantanea. Già mi sembra di leggere le prime interviste e retroscena che riveleranno al pubblico progressista l’antica passione di Salvini per Kierkegaard e per la Nouvelle Vague.

 

Non è vero che i princìpi dello stato di diritto in Italia non corrano alcun rischio. Ma per questo servirebbero anticorpi più solidi, non argini girevoli

 

Con questo, sia chiaro, non voglio dire che l’equilibrio dei poteri e i princìpi dello stato di diritto, per non dire la democrazia tout court, in Italia non corrano alcun rischio, e che tutti gli allarmi in tal senso siano campati in aria. L’esperienza del governo gialloverde con Salvini al ministero dell’Interno, nonché la dichiarata passione per Viktor Orbán e per Donald Trump di entrambi i principali leader del centrodestra, per non parlare dei grillini, stanno lì a dimostrare che il pericolo è reale. Proprio per questo, però, servirebbero anticorpi più solidi, non argini girevoli, per dir così.

 

L’impressione, insomma, è che il giochino dei volti buoni abbia fatto il suo tempo, come un album di figurine fuori corso. In un’epoca in cui sul futuro della democrazia liberale si addensano nuvole cupe in tutto il mondo, il linguaggio che accomuna da tempo tre quarti dell’attuale arco parlamentare, dal Movimento 5 stelle a Fratelli d’Italia, non può lasciare tranquilli. Non è solo questione di lessico, ma forse è anche questione di lessico. Lessico e nuvole, la faccia triste della politica, che voglia di piangere ho.