La risoluzione al Senato
Draghi non cede sulle armi, e Conte traballa: “Così io non reggo”
Il M5s si spacca. L’ex premier rompe col Partito democratico e segue Leu. Ma ora rischia di capitolare del tutto. Il Colle, intanto, vigila
La presunta astuzia è così patetica che genera fastidio, più che compassione. “Lo sapete anche voi che non è solo una questione di forma”. L’ammonimento, a metà pomeriggio, arriva direttamente da Palazzo Chigi, dove in realtà alle presunte malizie del M5s in vista delle comunicazioni di Mario Draghi in Parlamento, erano già preparati. E anzi, i consiglieri del premier avevano alzato il sopracciglio, domenica sera, quando lo stato maggiore del Pd aveva mostrato fiducia: “Vedrete, il sentiero è stretto ma li convinceremo”, aveva rassicurato Enzo Amendola, costretto a esercizi di equilibrismo lessicale malgré soi. Sta di fatto che la mediazione che anche al Nazareno ritenevano “ragionevole”, i grillini la rigettavano. Ed è allora che da Palazzo Chigi inviano una riformulazione ancora più restrittiva. Nell’attesa che si trovi un accordo.
Del resto, che la negoziazione alla vigilia del Consiglio europeo potesse incepparsi davvero, era iniziato ad apparire chiaro già in mattinata. Perché, nella videocall dei responsabili grillini, la spaccatura tra dimaiani e contiani è maturata in modo netto. Coi primi, guidati da Gianluca Vacca, Sergio Battelli e Iolanda Di Stasio, che provavano a sostenere la linea della pacatezza, dicendo che “serve accettare un punto di caduta”; e i secondi, capitanati da Riccardo Ricciardi e Mariolina Castellone, che invece s’impuntavano: “Quello che proponiamo noi è già un punto di caduta, se andiamo oltre ci perdiamo la faccia”. Rispettavano, in fondo, le direttiva arrivate dal fu avvocato del popolo: “Se sul tema delle armi non segniamo un punto, la mia leadership è finita”.
Solo che il prezzo per la dignità di Conte sarebbe la credibilità del governo. E su questo, Mario Draghi e Lorenzo Guerini hanno convenuto fin dall’inizio. Perché la richiesta avanzata dal M5s – quella di chiedere un vaglio vincolante e preventivo da parte del Parlamento su ogni invio di armi – porterebbe i vertici della nostra diplomazia a dovere alzare le mani in ognuna delle prossime riunioni internazionali, a partire dal Consiglio europeo di giovedì e passando per il vertice Nato di fine mese a Madrid: “Noi condividiamo la linea dei nostri alleati in sostegno alla resistenza dell’Ucraina, salvo che Conte e Salvini non dicano di no alle Camere”.
Per il leader del M5s non si farebbe altro che rispettare il monito pronunciato da Sergio Mattarella nel suo discorso di reinsediamento: quello sulla centralità del Parlamento. Se non fosse, però, che è talmente pretestuosa, la tesi, che nei colloqui riservati dal Quirinale è filtrata una netta contrarietà a ogni scantonamento rispetto alla linea seguita dal governo. E del resto, il Parlamento si è già espresso, e lo ha fatto col voto compatto di tutto il M5s, all’indomani dell’invasione ordinata da Putin. E in quel decreto si autorizza il governo a inviare armi a Kyiv fino al 31 dicembre, con l’impegno che i ministri di Difesa o Esteri, “con cadenza almeno trimestrale, riferiscono alle Camere sull’evoluzione della situazione in atto”. L’unico a dirsi contrario, all’epoca, fu Vito Petrocelli. “Davvero Conte vuole seguire la linea di uno che Conte ha espulso per le sue vicinanze alla Russia?”, sbuffano al Nazareno. Da dove fanno arrivare al M5s una proposta: “Codifichiamo la prassi. Mettiamo nero su bianco che l’esecutivo è chiamato a informare il Copasir alla vigilia di ogni spedizione di armi”. Come già succede, del resto.
“Troppo poco”, tuona Conte, informato dai suoi sullo stato dell’arte della trattativa. Ed è qui che il senatore dem Alessandro Alfieri, e insieme a lui Amendola, convengono che di spazi di manovra non ce ne sono più. Ed è qui che arriva la riformulazione da Palazzo Chigi. Che recita: il Parlamento “impegna il governo a continuare a garantire il coinvolgimento delle Camere, secondo le procedure previste dal decreto legge 14/22, in occasione dei più rilevanti summit riguardanti la guerra in Ucraina e le misure di sostegno alle istituzioni ucraine, ivi comprese le cessioni di forniture militari”. Dunque il richiamo al decreto Ucraina, dunque la stroncatura di ogni messinscena. Questa frase piomba sul tavolo di una riunione, in corso al Senato dalle tre del pomeriggio fino a ora di cena, che più che le intemperanze grilline certifica il loro sbandamento.
Il capogruppo di Montecitorio, Davide Crippa, si limita ad aggrottare la fronte, come fanno pure Battelli e Di Stasio. La sua collega Castellone, alla guida di una truppa di senatori assai più esagitati, prova a contestare il merito della soluzione proposta, e lo fa insieme alla capogruppo di Leu, Loredana De Petris, in un fremito di mélenchonismo romano. Il tutto, mentre perfino Volodymyr Zelensky arriva a chiedere, in prima persona, collegandosi col palco di un convegno dell’Ispi a Milano, un sostegno militare da parte dell’Italia: “Ci serve per difenderci, non per invadere la Russia”. Il tutto mentre Di Maio è a Strasburgo per il Consiglio europeo degli Affari esteri e ribadisce la necessità “di rispettare le nostre alleanze storiche, senza cedere a colpi di testa elettoralistici”. Il tutto mentre Guerini è a Bolzano e conferma l’impegno militare a est di fronte all’omologo romeno. Il tutto, insomma, mentre il governo ha già scelto, e da un pezzo, da che parte stare: ma alle nove della sera, un accordo definitivo sul testo della risoluzione che l’indomani il Senato dovrà votare, ancora non c’è.