illuministi e riformisti
Un dialogo sulla necessità dei concorsi pubblici
Producono a volte favoritismi, imbrogli e discriminazioni, e qualcuno per questo vorrebbe abbandonarli del tutto. Basterebbe invece riformarne i meccanismi. Come scegliere il personale pubblico
In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 21 novembre 2006, intitolato “L’ipocrisia del concorso”, Pietro Ichino suggeriva di abbandonare i concorsi e attivare un sistema di controllo rigoroso dei risultati. Il Foglio del 1° giugno di quest’anno titolava un articolo “Il reato è il concorso”; vi si proponevano, per il reclutamento del personale universitario, chiamate dirette e responsabilità del corpo che seleziona, verificate in base ai risultati: che i massimi esperti del settore esprimano un giudizio sulle qualità del ricercatore; chi sbaglia perde la sua credibilità. Sentiamo l’opinione di un illuminista, che vuole conservare i concorsi, e di un riformista, che invece vuol cambiare meccanismi di reclutamento.
Riformista. Periodicamente si hanno notizie di commissioni compiacenti, di selezioni determinate da interessi personali, di scambi di favori, di docenti che favoriscono allievi e di dirigenti pubblici che favoriscono amici o familiari. Se il meccanismo del concorso non funziona, va cambiato.
Illuminista. Uno dei motti della compagnia di Gesù è “distingue frequenter” e padre Dante, nel canto tredicesimo del Paradiso scrive: “quegli è fra gli stolti bene abbasso / che sanza distinzione afferma e nega / nell’un così come nell’altro passo”. Se vogliamo seguire questo insegnamento, dobbiamo distinguere tra il concorso e il modo in cui si svolgono i concorsi oggi in Italia. Se le modalità sono sbagliate, questo non vuol dire che i concorsi siano un meccanismo sbagliato di selezione del personale. Solo i concorsi riescono a garantire cinque finalità essenziali: l’apertura senza discriminazioni e quindi un trattamento uguale per tutti; l’indipendenza della commissione che giudica; l’imparzialità della procedura di giudizio; la valutazione comparativa; il rispetto del merito. Se tutto questo funziona o si riesce a farlo funzionare, perché abbandonare i concorsi?
Riformista. Le modalità influiscono sul mezzo. Le dimensioni dei concorsi (mi riferisco ai cosiddetti maxi concorsi) non consentono valutazioni accurate; a causa delle dimensioni, le valutazioni, anche quando sono complete, sono puramente meccaniche; le prove consistono per lo più in esercizi mnemonici, per cui viene premiata non la capacità di ragionare, ma la capacità di memorizzare; i tempi di svolgimento sono spesso troppo lunghi, proprio a causa delle dimensioni dei concorsi; i concorsi non sono ben distribuiti nel tempo, con la conseguenza che vi sono periodiche “abbuffate”, seguite da lunghi digiuni; per non parlare delle pastette, degli imbrogli, dei raggiri. Così il meccanismo del concorso viene stravolto e la procedura concorsuale si risolve o in una beffa, o in ritardi.
Illuminista. Questi inconvenienti possono essere facilmente superati o corretti e il governo Draghi ci sta anche provando. Non conviene quindi buttare l’acqua sporca con il bambino.
Riformista. Anche il governo Draghi ha le sue responsabilità. Si propone l’assunzione di 200 mila persone all’anno fino al 2026, per arrivare a quattro milioni di dipendenti entro quella data, come annunciato dal ministro competente in Parlamento. Tutto questo avrà due inconvenienti. Un aumento improvviso del numero dei dipendenti pubblici, con i costi conseguenti, aumentati dalla notoria disattenzione dell’esecutivo italiano per i nuovi entranti, che non hanno chi li guidi nei nuovi lavori (con la conseguenza di tante dimissioni dopo le assunzioni) e un blocco delle assunzioni per numerosi anni successivi, impedendo il reclutamento dei giovani che si affacceranno sul mercato del lavoro nel quarto decennio del secolo.
Illuminista. La cattiva nomea dei concorsi che – ripeto – riguarda le modalità di svolgimento, non il meccanismo in sé, non deve far dimenticare alcuni principi costituzionali importanti: il riconoscimento dei capaci e meritevoli (articolo 34 della Costituzione), il diritto di tutti i cittadini di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza (articolo 51), l’obbligo di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore (articolo 54), l’accesso agli impieghi pubblici mediante concorso e l’imparzialità dell’amministrazione (articolo 97), l’obbligo per gli impiegati pubblici di agire al servizio esclusivo della nazione (articolo 98), la nomina dei magistrati per concorso (articolo 106). Il “concorrere” a cui fa riferimento la Costituzione per i funzionari pubblici e per i magistrati, ricorda l’articolo 49 per cui i partiti concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La Costituzione, in altre parole, onora la competizione sia nel campo statale, per l’esecutivo e il giudiziario, sia nel campo politico, prevedendo il concorso dei partiti e sottoponendolo al giudizio dell’elettorato.
Riformista. Lasciamo per un momento il piano del diritto e vediamo quali meccanismi potrebbero essere introdotti per migliorare la situazione attuale. Si potrebbe pensare di affidare ad agenzie specializzate e imparziali esterne il compito di svolgere i concorsi (oggi in parte, e non sempre con successo, si utilizza il Formez). Si potrebbe pensare di preparare il terreno istituendo scuole pubbliche di preparazione per i concorsi, senza lasciare questo compito a scuole private, per lo più gestite da magistrati. Si potrebbe pensare a meccanismi preliminari di autovalutazione, come quelli sperimentati dal “Civil Service” nel Regno unito.
Illuminista. Prima di passare agli strumenti concreti per migliorare la situazione, vorrei ricordare che alla base del concorso c’è il principio del merito. Oggi la meritocrazia viene spesso svalutata, ma è stato un obiettivo costante di tutti gli ordinamenti civili, dall’antica Atene all’Ottocento inglese. Pericle, nel 461 a.C., secondo Tucidide disse: “Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, non come atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento”. Poi continuava affermando che così si costituisce una scala di valori fondata sulla stima che ciascuno sa suscitarsi intorno, per cui, eccellendo in un determinato campo, può conseguire un incarico politico in virtù delle capacità reali.
Le motivazioni della scelta dei dipendenti pubblici mediante concorso furono illustrate, numerosi secoli dopo, da John Stuart Mill nel suo libro sul governo rappresentativo nel quale osservava che un “pubblico esame diretto da persone estranee alla politica e pari, per classe e per grado, agli esaminatori per le dignità universitarie” è necessario perché un ministro “non resisterà mai alle persone che possono influire sulla sua propria elezione o il cui appoggio politico importa al ministero di cui egli fa parte”. Secondo il Mill, è poi necessario che gli esami si facciano per concorso perché altrimenti “l’esaminatore, posto al bivio tra ammettere un richiedente che non lo merita, così danneggiando l’interesse pubblico, o curare l’interesse pubblico escludendolo dal posto, sceglierà la prima strada”. Ho evocato due così illustri precedenti per sottolineare che concorso vuol dire accesso aperto e non riservato o con posti riservati, per rispettare l’eguaglianza; scelta del vincitore tra più concorrenti sulla base di un esame comparativo; giudizio imparziale per la scelta, affidata a un organismo indipendente dall’amministrazione.
Il principio del concorso comporta l’esclusione delle stabilizzazioni e delle titolarizzazioni dei precari, come avviene frequentemente, specialmente nella scuola, con immissioni in ruolo senza selezione. Sul Sole 24 Ore del 19 giugno scorso si poteva leggere che “la finestra temporanea per stabilizzare i precari del pubblico impiego è sempre meno temporanea…; con il nuovo ritocco si allunga fino alla fine del 2024. Il meccanismo è quello introdotto cinque anni e quattro governi fa dalla riforma Madia…; prevedeva per i tre anni successivi la possibilità di bandire concorsi riservando fino al 50 per cento dei posti ai titolari di contratti a termine, assunti senza procedure a evidenza pubblica, che avessero maturato tre anni di anzianità”. Si tratta di abbandonare la concezione patrimoniale dello Stato che comportava la venalità degli uffici o il patronato politico, con conseguente sistema delle spoglie. Da questo punto di vista, il principio del concorso è funzionale sia al principio di uguaglianza e, quindi, alla società, sia alla scelta dei migliori per l’esercizio delle funzioni pubbliche e, quindi, a un’esigenza che riguarda il buon funzionamento dello Stato.
Riformista. Tanti bei principi ma come vengono applicati? Come possiamo ignorare il modo in cui è stata gestita, ad esempio, l’autonomia del Consiglio superiore della magistratura? La spartizione correntizia si ferma davvero soltanto alle carriere, alle promozioni, alle assegnazioni degli incarichi direttivi e semi direttivi, o va oltre?
Illuminista. Non confondiamo ancora una volta i principi con la loro attuazione. Vorrei ribadire nuovamente che, nel corso di almeno due secoli della storia dello Stato, il principio del merito è stato affermato per opporsi alla venalità degli uffici e al patronato politico, e per assicurare il rispetto del principio di uguaglianza. L’idea del merito fu trasportata nel Settecento nella cultura francese dai missionari cattolici provenienti dalla Cina, dove questi erano rimasti impressionati dal complesso sistema di selezione di quelli che furono poi chiamati mandarini. L’età dei lumi pensò di creare un potere pubblico virtuoso e competente. Quest’idea ebbe grande successo anche in Inghilterra, dove Jeremy Bentham divenne un paladino della proposta che agli uffici pubblici si giungesse dopo una “appropiate examination” aperta al maggior numero possibile di candidati e sottoposta al massimo possibile di pubblicità; fu per questo che alla metà dell’Ottocento venne riformato il “Civil Service” e vennero riformate, in coincidenza, le università di Oxford e di Cambridge. Un analogo processo avvenne negli Stati Uniti perché nel 1883 Pendleton riuscì a far approvare la legge che porta il suo nome, con la quale veniva creato negli Stati Uniti un funzionariato permanente, scelto sulla base di esami comparativi, fondati su prove dirette ad accertare la qualità degli aspiranti, e venne abbandonato, salvo poche eccezioni, il sistema cosiddetto delle spoglie.
Riformista. Insisto: ma si fanno davvero concorsi in Italia? E quelli che si chiamano concorsi sono veramente tali? Innanzitutto, vi sono molti aggiramenti, ad esempio con le progressioni di carriera invece dei concorsi. Grazie a un emendamento Verducci al secondo decreto sul piano di ripresa, viene ora generalizzata una carriera che consente di andare dal contratto di ricerca al posto di professore associato nell’università, quindi privilegiando chi è già all’interno, senza una procedura concorsuale aperta anche agli esterni. Poi ci sono i finti concorsi. Recentemente è stato fatto un tentativo, per gli incarichi dirigenziali, di prevedere procedure straordinarie di inquadramento con prove di “esclusivo carattere esperienziale” e promozioni solo con un colloquio. Infine, vi sono gli scorrimenti delle graduatorie. Ad esempio, si bandisce un concorso per 15 posti; la commissione esaminatrice dichiara idonei 215 concorrenti; vengono assunti subito i primi 15 e poi successivamente altre 200 persone, che non possono essere certamente chiamate vincitori di concorso.
Illuminista. Questi sono tutti inconvenienti che derivano da un regime di anomia nella materia dei concorsi; non forniscono buoni argomenti per abbandonarli. Non vi sono altri modi per assicurare un esame comparativo, aperto a tutti, con selezione fondata sul merito. In altre parole, se non si fa un concorso, ovvero un esame comparativo adeguatamente pubblicizzato in modo che tutti coloro che hanno i requisiti possano partecipare, essendo valutati da una commissione imparziale e indipendente, perché solo i capaci e meritevoli vengano scelti, si dovrà ricorrere al patronato politico o alla cooptazione. Questo è tanto più importante in quanto il piano nazionale di ripresa prevede dal 2022 al 2026 lo stanziamento di cinque miliardi e mezzo di euro per l’assunzione di circa 41.000 persone, più incarichi per esperti.
Riformista. Non si può negare, però, che la chiamata diretta possa essere applicata nelle università. Esse sono autonome e, come i privati, se sbagliano ne pagano le conseguenze.
Illuminista. I concorsi universitari presentano peculiarità che vanno considerate. I concorrenti sono noti e sono note anche le loro opere; quindi si può esprimere un giudizio anche prima del concorso ed è bene che la comunità degli studiosi lo faccia prima dei concorsi. In secondo luogo, le commissioni sono composte anch’esse da professori, ovviamente più anziani, e l’elezione o il sorteggio garantiscono che nelle commissioni non entrino soltanto persone compiacenti. Quindi, la peculiarità dei concorsi universitari è che si gioca a carte scoperte: sono noti i candidati e le pubblicazioni, spesso già giudicate in convegni o con recensioni, e i commissari fanno parte della comunità degli studiosi e sono spesso maestri che sostengono propri allievi. Aggiungo che anche la chiamata diretta delle università anglosassoni non prescinde da un esame comparativo: le facoltà di solito nominano commissioni che valutano comuniversiparativamente i titoli dei candidati e riferiscono alle facoltà. Anche nell’università americana vi sono rapporti di filiazione intellettuale.