Palazzo Chigi
Il serafico Draghi. I giorni perduti su una risoluzione che non dice "niente"
Si presenta al Senato quando la mediazione è ancora in corso prevedendo che si sarebbe conclusa in una scappatoia linguistica. Le telefonate con Di Maio: "Hai la mia fiducia"
Roma. Non era preoccupato, non era infastidito, non “era niente”. Raccontano che ieri mattina, in molti, funzionari, collaboratori, tutti quelli che hanno visto entrare Mario Draghi a Palazzo Chigi, si siano chiesti: “Ma come fa a essere così serafico? Come fa a essere così tranquillo? Qui sta precipitando tutto e lui non dice niente”. Quando si è seduto al Senato, ed erano le 15.03, mancava perfino l’accordo sulla risoluzione e lui, ancora, non diceva niente. C’è chi scommette sui numeri, sui cavalli, sulle squadre di calcio. Draghi aveva scommesso che non sarebbe “accaduto niente”. Ha vinto, ma avendo scommesso su “niente” non si vince “niente”. Mentre ricordava ai senatori che “l’unità è fondamentale” e che il sostegno all’Ucraina non sarebbe venuto meno, “così come questo Parlamento ci ha dato mandato di fare”, i Pietro Bembo di Giuseppe Conte, i finissimi grammatici del M5s, litigavano ancora sull’importanza che ci fosse la dicitura “necessario coinvolgimento delle Camere”. Essendo figure che la storia presto consegnerà all’oblio pretendevano il doppio aggettivo “ampio”. E’ sempre così, chi è debole ha bisogno di alzare la voce, di fare capire al mondo che conta qualcosa. Lo fa con le armi che ha. Il M5s ha usato il dizionario. Erano passati pochi minuti dal momento in cui Draghi aveva preso la parola ma bastava guardare la smorfia dei ministri Federico D’Incà e Giancarlo Giorgetti per capire che l’accordo non c’era. Sotto i fogli del discorso che Draghi scorreva, testo che nessuno possedeva (è stato sbobinato alla fine) gli passavano le miserie, anche, linguistiche del nostro tempo.
Accanto a Draghi, alla sua sinistra, c’era Luigi Di Maio, l’unico che ricorderà questa giornata. A Palazzo Chigi, i più sottili, prima di conoscere il nome del nuovo gruppo di Di Maio, consigliavano di usare un nome bellissimo per un partito e per un uomo dalla biografia come la sua: “Confesso che ho vissuto”. Dicono, e con Draghi si può sempre usare la parola “dicono”, che in questi due lunghissimi giorni, Draghi e Di Maio, si siano parlati a lungo e che Draghi abbia rassicurato il suo ministro: “Vai avanti, hai la mia piena fiducia”. Chi lo doveva dire a Di Maio che un giorno sarebbe entrato in politica, perché di fatto da ieri vi entra sul serio, grazie all’ex governatore della Banca centrale europea? Di mattina, Draghi era stato informato dal suo ministro degli Esteri dell’intenzione di raccogliere le firme in Parlamento e favorire la nascita di un nuovo gruppo politico. Draghi si è limitato ad ascoltarlo, prenderne atto. Per lui, anche questo movimento, nel Movimento, fa parte di quelli che cataloga come “fenomeni politici”.
Ad Amendola e D’Incà aveva solo chiesto che nella risoluzione ci fosse il rimando a quel decreto legge 14, quello che legittima il governo a continuare a inviare armi all’Ucraina fino al 31 dicembre del 2022. Ci teneva perché un giorno - e verrà, senza per forza attendere quello di Fra Cristoforo - qualcuno potrà dire che nella storia italiana ci sono stati anche i parlamentari incapaci di intendere e di volere, quelli che non sanno neppure cosa approvano. Ecco perché si stagliava Pier Ferdinando Casini. Pochi sono ormai gli uomini che hanno la sua libertà. Non avendo niente da perdere può permettersi il privilegio di dire quello che vuole. Ha preso la parola dopo l’intervento di Draghi e ha parlato di “teatrino incompresibile”. Draghi ascoltandolo ha sorriso e chi lo conosce dice che abbia pensato al tempo perduto, alla fatica impiegata in questi giorni per permettere a una figura minore come Giuseppe Conte, una figura che solo questa epoca disperata ha ingigantito, di avere un po’ di spazio sui giornali, nelle televisioni. La risoluzione, a cui ha lavorato con dedizione il Pd, e anche Draghi ne ha preso atto, veniva infatti approvata. Un testo in cui, alla fine, non c’era scritto “niente”.