l'intervista

"Viviamo in un incubo". David Leavitt ci racconta le divisioni profonde della società americana

Giuseppe Fantasia

L'ombra lunga del trumpismo, la sentenza sull'aborto e il rischio di ulteriori strette sul tema dei diritti degli omosessuali. Ma anche il suo rapporto con l'Italia, il legame con Saturnia, e il suo ultimo libro. Intervista allo scrittore che più di tutti ha dato forma all'immaginario queer statunitense

“Viviamo in un incubo”, dice al Foglio David Leavitt, l’ex enfant prodige che nel 1986, a soli 21 anni, scrisse il bestseller mondiale La lingua perduta delle gru, un libro/manifesto per la comunità LGBTQI+, “che scrissi per colmare una lacuna”, “è stato ciò che avrei voluto leggere quando ero adolescente, ma che nessun libro raccontava”, si legge nella prefazione alla nuova edizione pubblicata, come tutti i suoi libri, da SEM-Società Editrice Milanese nella nuova traduzione di Fabio Cremonesi. “Dopo aver sopportato Trump, il Covid e ora la guerra in Ucraina, non ne possiamo più e siamo tutti stanchi. Amo gli Stati Uniti d’America, perché è lì che sono nato - precisa - ma si stanno facendo dei continui errori e passi indietro che spaventano e disorientano. L’ultimo, (la decisione della Corte Suprema di eliminare il diritto all’aborto a livello nazionale, ndr) è sconcertante”.

I am Heartbroken ha scritto Michelle Obama. Lo è anche Leavitt e non solo lui. “Nello Stato stato in cui vivo, in Florida, poi, abbiamo un governatore di super destra e, guarda caso, da poco è stata varata la legge Don't Say Gay che vieta a tutti gli insegnanti di pronunciare le parole gay, lgbtq e omossessualità. In realtà, la sessualità non è più astrusa o incognita come lo era prima e oggi c’è la pansessualità: ognuno può essere ciò che vuole. I miei studenti si definiscono così, le nostre erano idee molto più confuse e chiuse. Con loro, alla University of Florida, dove insegno scrittura creativa, preferiamo usare parole come queer e pansessuale, perché non ci sono imposte, ma scelte da noi”.

Siamo a Roma, in una delle sale restaurate dell’Hotel Locarno e Leavitt – l’autore americano che più di tutti ha contribuito in modo decisivo alla creazione dell’immaginario queer tra gli anni ’80 e ’90 aprendo una porta ancora sin troppo chiusa – ci parla alternando l’inglese all’italiano, perché dal 1993 al 2000, ha vissuto con suo marito Mark nel nostro Paese. “Avevamo una casa vicino alle Terme di Saturnia, a Semproniano, un villaggio di 600 persone e poi, per lavoro, siamo tornati negli States, ma vista anche la situazione che le stavo descrivendo, abbiamo voglia di tornare in Italia. Controllo spesso dei siti specializzati nelle vendite di abitazioni, ma per ora non sappiamo ancora dove, forse Cuneo, Cortina, forse Trieste o un’altra cittadina del nord, chissà. Qui da voi, mi sento a casa”. “Il mio amore con l’Italia nasce con il cibo –continua - ero e sono ossessionato dalla pasta che quando ero piccolo da noi non si trovava, ma, soprattutto, dalla vostra arte che studiai prima di metterci piede la prima volta”. “Da noi manca il senso della storia e del gusto. Trump ha avuto le sue colpe, ma del resto, questo accade sempre quando si da’ potere a persone schizofreniche, è davvero molto pericoloso. È successa la stessa cosa con Putin che è mostruoso: non somiglia ad un umano e il suo è un chiaro problema patologico, altrimenti non si spiegano alcune sue scelte e affermazioni”.

C’è l’ombra di Trump anche nel suo ultimo libro, Il decoro, in cui il suo bersaglio polemico è la classe colta americana disgustata dal successo dell’ex presidente degli Stati Uniti, ma incapace d’immaginare qualcosa di diverso dal desiderio di fuga o dall'ostracismo verso i trumpiani.

“Se ripenso al mio esordio – i nove racconti di Ballo di famiglia – mi viene da sorridere e provo tenerezza per quel ragazzino che ero. Il primo sarebbe stato pubblicato sul New Yorker e lì avrei fatto coming out prima di dirlo ai miei genitori. Mi affrettai a farlo prima che uscisse, perché con loro ho sempre avuto un buon rapporto. Reagirono benissimo, sono stato fortunato”. Un po’ come il protagonista del suo libro più conosciuto, Philip Benjamin, che fa la stessa cosa grazie a genitori che “liberal” che nel ricevere questa notizia “non saranno certo distrutti”. Attraverso lui, Leavitt ricorda – e ce lo dice anche a voce - che l’amore che ha scelto di vivere non è convenzionale né facile, “ma non ci sono certo motivi per costringerci a tenere ancora segreta la nostra vera aspirazione come una speranza di felicità, perché qualunque sia la cosa che amiamo, è ciò che siamo”.

Lo ha detto e ribadito in queste anni molte volte, soprattutto nei suoi libri, anche quando questo concetto non era espresso in maniera così diretta. “Non penso però che la letteratura abbia molto effetto sulla società, mi piacerebbe che ne avesse di più, ma nonostante questo è importante - è ovvio - come l’arte e la musica, anche se nessuno legge, anche se nessuno ascolta la musica. Devi sempre farlo per il futuro”. Presto - ci anticipa lui che ha da poco ricevuto il Premio Nino Gennaro a Palermo e che, il 2 luglio prossimo, riceverà il premio alla carriera all’Orbetello Book Prize – arriverà nelle librerie il suo nuovo romanzo, “un romanzo storico ambientato in parte anche a Napoli alla fine dell'Ottocento sul mondo della teosofia e parapsicologia”. “Scrivere è la mia vita, ma è un po’ difficile farlo in questo momento, perché il mondo cambia ogni cinque minuti. Parlare del presente, è quindi impossibile ed è per questo che sono tornato al passato e al romanzo storico. Dobbiamo però pensare a questo e cioè che le situazioni di crisi portano sempre a un grande fiorire di creatività, quel che è successo dopo la prima e la seconda guerra mondiale, con un’esplosione di creatività e solidarietà, lo dimostra. Ciò di cui abbiamo bisogno è il tempo, necessario per digerire e ricominciare più forti di prima”.

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