(Foto di Ansa) 

Il Grillo velato. Per l'Elevato l'assenza è l'essenza della leadership

Francesco Cundari

Come ogni santone della politica il padre dei Cinque stelle preferisce non uscire dalla nicchia e da lì dispensa i suoi oracoli

Adesso è quasi straziante leggere sui giornali le disperate invocazioni dei discepoli, sperduti dentro aule parlamentari sempre più deserte, in vista della pausa estiva, l’ultima, prima della campagna elettorale che segnerà il destino di tanti: “Beppe, perché ci hai abbandonato?”.
Molti di loro, sulla stampa, hanno già perso il diritto alla fotina che ne accompagnava un tempo i pensosi virgolettati, ombre prive di qualsiasi individualità, fantasmi che attraversano per un attimo retroscena ostili e corsivetti sprezzanti, forme incorporee che sbiadiscono su quelle stesse pagine su cui la fecero da padroni per anni, con interviste implausibili e monologhi improbabili. Contiani e dimaiani accomunati da un identico destino, ridotti ormai a pura massa di manovra. Senza nome, senza volto, senza difese. E senza Beppe.

 
Ad alcuni potrà sembrare una crudeltà, o quantomeno un’ingiustizia, certo però non è un caso. Al contrario. Per Beppe Grillo, infatti, l’assenza è l’essenza stessa della leadership. Non per niente si fa chiamare l’Elevato, abusando di un vecchio trucco: andare talmente sopra le righe da lasciare sempre nel prossimo almeno il dubbio, se non la certezza, che l’espressione sia ironica, così che nessuno si arrischi a contestarla seriamente, per paura di passare per quello che non ha capito la battuta o che non sa stare agli scherzi. 

 

L’Elevato: lasciare sempre il dubbio che l’espressione sia ironica. Nessuno la contesta, per paura di passare per quello che non capisce la battuta


Suvvia, non crederete mica che Grillo si consideri davvero un santone, un guru, un profeta, se non direttamente una divinità che giudica e comanda sui discepoli dall’alto della sua suprema e indiscutibile autorità? Ebbene, se non ci credete, se pensate che sia tutto uno scherzo, un simpatico modo di prendersi in giro, vi sbagliate: perché Grillo dice esattamente quello che pensa e fa esattamente quello che dice. Perché nessuno si prende più drammaticamente sul serio di lui. E lui è l’Elevato. Lui indica la strada, si esprime in forme oracolari (un altro vecchio trucco, che ha la stessa elementare funzione della sua pseudo-ironia: garantirgli di non dover mai rispondere di quello che dice) e poi sparisce, lasciando agli adepti il duro compito di tradurre in pratica le sue ispiratissime suggestioni. Così che, quando le cose vanno bene, il merito è della sua visionaria follia; quando vanno male, la colpa è di quel branco di mentecatti che non hanno saputo far tesoro delle sue indicazioni. Facile, no?
Grillo, come ogni santone che si rispetti, dice esattamente quello che pensa. Sempre. Il che non vuol dire, attenzione, che creda sempre a quello che dice. 
Quando si definisce l’Elevato, parlando e comportandosi di conseguenza, è evidente che l’apparente ironia della definizione è solo uno schermo, un modo tra lo spiritoso e il mistico-orientaleggiante, che va sempre di moda, per tradurre in termini accettabili l’antico concetto del Belli: “C’era una vorta un Re cche ddar palazzo / mannò ffora a li popoli st’editto: / ‘Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo…” (nota per Luigi Di Maio: sì, quella del “Marchese del Grillo” era una citazione). 


Questo significa forse che Grillo creda davvero di essere una via di mezzo tra un profeta, un medium e una divinità indiana? Ovviamente no. Ma è serissimo nell’esigerne onori e funzioni, nel pretendere dagli adepti la stessa cieca obbedienza e soprattutto la stessa assoluta incontestabilità. Perché alla fine dei conti l’unica differenza che conta, dal suo punto di vista, tra democrazia e teocrazia, è tutta qui: che la contestazione del leader democratico è normale dialettica politica, la contestazione del profeta è un sacrilegio. Traduzione pratica: niente rotture di coglioni.
Ecco perché la sospensione d’incredulità non può mai essere spezzata, l’incantesimo non si deve rompere per nessuna ragione, guai a mostrare il trucco: nemmeno di fronte all’autodistruzione del suo stesso movimento Grillo può permettersi di parlarne seriamente, neanche per un attimo, al di fuori della finzione ironico-sapienziale. Non per niente, ancora la settimana scorsa, il 17 giugno, quando tutto stava franando, l’atteso intervento del guru, affidato ovviamente a un post sul suo blog (che è dove tutto è cominciato e dove tutto finirà, cioè dove si fanno, o almeno si facevano, i soldi), s’intitolava così: “Il Supremo mi ha parlato”.
Se non ci fosse lo schermo della pseudo-ironia, se fosse stato un qualsiasi altro leader di partito a rivolgersi così ai propri seguaci, il gioco non sarebbe durato tanto a lungo, evidentemente. E oggi non potremmo leggere sui giornali titoli come quello comparso ieri su Repubblica: “Grillo si sfoga con il dentista: ‘Deluso e distaccato’”. Arrivati a questo punto, sarebbe partita, inevitabilmente, dagli osservatori prima ancora che dagli stessi seguaci, una gigantesca pernacchia, e magari anche qualche richiesta di risarcimento. E tuttavia, se anche si volesse parlare di circonvenzione d’incapaci, non sarebbe affatto facile stabilire chi siano i complici e chi le vittime. A parte gli elettori, s’intende.

 

Si crede davvero un profeta? No. Ma è serissimo nell’esigerne gli onori e le funzioni, nel pretendere dagli adepti la stessa obbedienza e incontestabilità


Chi lo sa, forse, se a suo tempo Wanna Marchi avesse fondato un partito, e le sue creme “sciogli-pancia” le avesse vendute su un blog, oggi in televisione e sui giornali avremmo attempati sociologi intenti a discettare di dietologia diretta, avremmo economisti, storici e filosofi pronti a spiegarci il carattere rivoluzionario della lotta contro le diseguaglianze di peso, l’adipe e i peli superflui, avremmo interviste sui giornali e convegni di esperti alla Camera e al Senato sulle creme di cittadinanza, e magari i prodotti antirughe o antigrasso ora li passerebbe il servizio sanitario nazionale.
Senza lo schermo della pseudo-ironia e senza la posa del santone dietro cui rifugiarsi, sparendo sempre al momento opportuno, cioè quasi sempre, il gioco non avrebbe mai potuto funzionare. Nessun leader politico avrebbe potuto cominciare sfasciando computer sul palco come simbolo dell’oppressione tecnologico-tecnocratica cui saremmo sottoposti e poi fondare un movimento su internet, affidato a una società informatica, con il progetto di sostituire la democrazia rappresentativa con la democrazia telematica. 


L’unico leader politico con cui sia possibile trovare qualche sia pur labile somiglianza – molto labile, intendiamoci – non appartiene all’occidente democratico, ed è il presidente Mao, soprattutto nell’ultima fase. Anche Grillo tende ormai a privilegiare cariche onorifiche e informali, che gli consentono di scomparire per lunghi periodi dalle scene, salvo poi ritornare all’improvviso, scaricare su altri le responsabilità di tutto ciò che è andato storto, invitare i veri adepti a “sparare sul quartier generale” e riprendere in mano il gioco. Il fondatore non è interessato al potere inteso come gestione diretta, in prima persona, come responsabilità di governo, mentre tiene moltissimo al potere di legittimazione (e delegittimazione, di cui fa un uso continuo e imprevedibile) connaturato al ruolo di guida suprema. La posizione che predilige è quella della divinità nascosta, di cui tutti devono temere l’ira, a cominciare dagli aspiranti delfini, che fanno tutti, inevitabilmente, una brutta fine (altra somiglianza con Mao).
Al tempo della penultima crisi del Movimento 5 stelle, giusto un anno fa, giugno del 2021, per un attimo sembrò che l’incantesimo fosse stato spezzato. Ancora una volta, infatti, Grillo era ricomparso all’improvviso. Ancora una volta, lui per primo, aveva sparato sul quartier generale. “Vanno affrontate le cause per risolvere l’effetto – aveva sentenziato – ossia i problemi politici, idee, progetti, visione, e i problemi organizzativi, merito, competenza, valori e rimanere movimento decentralizzato, ma efficiente. E Conte, mi dispiace, non potrà risolverli perché non ha né visione politica, né capacità manageriali”. 


A scatenare la sua furia era stata la bozza del nuovo statuto elaborata da Conte, in cui si riducevano sostanzialmente i reali poteri dell’Elevato (a riprova di quanto Grillo ci tenesse e ci tenga, eccome, a quei poteri). Eppure, quella volta, la mossa non aveva funzionato, la rivoluzione culturale non era partita, il reprobo non era stato costretto in ginocchio a un’umiliante autocritica. Si era aperta invece una difficile trattativa – proprio Di Maio era stato tra i principali mediatori – per riportare la pace tra l’Elevato e il presidente, tra la guida suprema e l’uomo chiamato a gestire le sorti terrene del movimento. Ma forse il problema era stato solo rimandato. 
Il compromesso maturato nel frattempo, annunciato da una nota del partito in aprile, prevede per il fondatore un ricco contratto, intorno ai trecentomila euro secondo i giornali, per promuovere “attività di supporto nella comunicazione con l’ideazione di campagne, promozione di strategie digitali, produzione video, organizzazione eventi, produzione di materiali audiovisivi per attività didattica della Scuola di formazione del Movimento, campagne elettorali e varie iniziative politiche”. Probabilmente è l’unico caso al mondo di leader e fondatore di una forza politica che si fa pagare per farle propaganda, e al dunque, come è accaduto alle ultime comunali di Genova, nemmeno si prende il disturbo di andarla a votare.

 

“Conte non ha né visione politica, né capacità manageriali”. Ma quella volta, la mossa non aveva funzionato, la rivoluzione culturale non era partita


E adesso? L’annunciata discesa a Roma è stata disdetta all’ultimo minuto, visto che la scissione si era ormai consumata, e i parlamentari andati con Di Maio si erano rivelati più numerosi del previsto. Nessuno ha capito davvero se la sua sia stata una ritirata strategica, concordata con Conte, o invece l’ennesimo voltafaccia, in attesa di capire dove tiri il vento, e se sia magari la volta buona per chiudere i conti anche con il punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti, secondo l’indimenticabile definizione di Nicola Zingaretti, che Grillo, ovviamente, non ha mai condiviso.
Il senso di abbandono dei suoi adepti resta comunque ingiustificato, perché l’Elevato ha sempre fatto così. Ha fondato un movimento capace di diffondere le peggiori teorie del complotto sulla grande finanza internazionale guidata dalla setta degli Illuminati, quando non proprio dai rettiliani (una via di mezzo tra i pedo-satanisti di QAnon e i Visitors, per chi ancora si ricordasse di quel vecchio telefilm), per poi piombare a Roma un bel giorno, con i manifesti del Pd ancora freschi sui muri della capitale (quelli che dicevano: “ll Partito democratico ha una sola parola ed esprime un nome come possibile guida di un nuovo governo di cambiamento. Quello di Giuseppe Conte”), li ha riuniti tutti e ha detto loro: sapete che c’è? Noi da oggi appoggiamo il governo di Mario Draghi, l’ex presidente della Bce. E perché mai? Perché ci ho parlato e mi ha detto di essere a favore della “transizione ecologica”. Ah, però. E quindi da domani si appoggia il governo Draghi, insieme con tutti gli altri partiti, dal Pd alla Lega (tanto ci abbiamo già governato insieme in questa legislatura), e pure con Forza Italia (ma sì, che ci frega), però nel simbolo del movimento ora ci scriviamo “2050”, che fa tanto visionario e utopistico. Questo, in sintesi, il discorso dell’Elevato.

 

La discesa a Roma è stata disdetta all’ultimo. Nessuno ha capito se sia stata una ritirata strategica concordata con Conte o l’ennesimo voltafaccia


E il bello è che ci sono cascati. Tutti. Ci cascano sempre. Seguaci, osservatori e commentatori. Tutti quanti. Articoli, interviste, talk-show a disquisire della “transizione ecologica” e del “2050”. Sì, lo so che ormai del 2050 vi eravate dimenticati, che dopo meno di un anno non ne parlano più nemmeno loro (appunto). Se n’è dimenticato pure Grillo. E allora, che importanza ha? Mica ci avevate creduto sul serio?
Tutti quelli che in questi anni si sono interrogati sul ruolo e sulle reali intenzioni di Grillo, domandandosi dove volesse andare a parare, quale fosse il suo obiettivo ultimo, la meta finale, tutti quelli che hanno cercato di ricostruirne la traiettoria e darsene una spiegazione, perdendosi dietro tante svolte, scherzi e contraddizioni, dietro tanto girovagare apparentemente insensato, ma sempre debitamente spesato, tutti quelli che ne hanno seguito il percorso senza mai riuscire a seguirne un discorso, a ben vedere, non hanno colto l’essenziale, che avevano invece proprio lì, sotto il naso. Non hanno capito che la vera meta era il viaggio. Non hanno capito che in questi casi, come dice il poeta, devi augurarti che la strada sia lunga. 
Specie se non sei tu a pagare la benzina.

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