La piccola Italia liberale. Molte ragioni, pochi voti
Perché un pensiero politico vitale si rivela così fragile nella storia repubblicana
È un dato di fatto. Nella storia repubblicana gli orientamenti di ispirazione liberale, liberal-democratica o social-liberale che dir si voglia, sono sempre stati vitali ma politicamente fragili, incapaci di guadagnare solidi consensi elettorali. Li potremmo definire orientamenti a bassa intensità ideologica, espressione di atteggiamenti pragmatici, orientati a cercare soluzioni ragionevoli, che spesso su molte questioni possono vantare di “avere ragione”. Ma È inutile avere ragione: così intitola una sua raccolta di scritti editi tra 2003 e 2017 Roberto Pertici, uno storico che da tempo insegue le tracce di un pensiero liberale, o liberal-conservatore italiano, un pensiero ricco di fermenti e di elaborazioni originali, ma messo ai margini, ignorato, e che sembra muoversi lungo un percorso parallelo al mainstream accademico e editoriale. Seguirne le tracce può in effetti dirci qualcosa della nostra storia.
Si pensi alla rapida eclissi del Partito d’azione, vissuto tra 1942 e 1947. Certo, aveva tratti innegabili di elitismo, rappresentava disparate forze d’opinione borghesi, intellettuali eretici refrattari all’organizzazione partitica che a quell’epoca si affermava prepotente nei due simmetrici partiti di massa, Dc e Pci (e verso la quale i liberali manterranno sempre una forte diffidenza, alimentando poi – si pensi a Sartori – la critica alla “partitocrazia”). Ma se così è, rimane l’interrogativo di come mai le élite intellettuali quasi abbiano fatto storia a sé in un paese pur ricco di intelligenze, di iniziative economiche e civili. Si è spesso parlato di una storica debolezza della borghesia italiana – peraltro smentita da tanti indicatori – e magari di una fragilità intrinseca alla storia d’Italia, alla sua conformazione sociale, alla sua cultura. Lo stesso movimento risorgimentale di cui il Partito d’Azione del 1942 volle prendere il nome era stato una meteora presto inghiottita dagli eventi.
E ancora, agli inizi del ’900, all’epoca dell’apertura giolittiana al suffragio universale, il liberalismo italiano non aveva saputo conquistare i nuovi ceti medi in ascesa, tra l’altro animati da una foga antigiolittiana, se non antipolitica. Dopo il 1917 almeno una parte dell’opinione liberale era stata contaminata dal grande messaggio venuto dalla Russia, e vide nel comunismo vittorioso il segnacolo – apprezzato o deprecato che fosse – del progresso storico. Ne era rimasto convinto Piero Gobetti, la cui Rivoluzione liberale era inverata dalle lotte socialiste del proletariato. E così era negli anni Trenta per l’altro gruppo dal nome risorgimentale, “Giustizia e Libertà” – semenzaio della democrazia italiana a venire – nel cui “Manifesto agli Italiani”, del settembre del 1935, ci si proponeva una “cura radicale” che facesse “tabula rasa di tutti i valori e le istituzioni del passato”. Più tardi, ai dubbi espressi da un Salvemini ormai americano Carlo Rosselli rispondeva stizzito che le riforme fondamentali dovevano conquistarsi subito, nel fuoco della rivoluzione, senza attendere i responsi di costituenti: “Quando mai hai pensato che fosse possibile punire i responsabili, tagliare il bubbone, rispettando la legalità, la libertà fin dall’inizio?”.
Un pugno di rivoluzionari questi antifascisti liberal-democratici? Un poco sì, se almeno si pensa alle letture che si davano allora del fascismo. Di fronte alla lettura crociana – fin troppo schematizzata, se non ridicolizzata – del fascismo come “parentesi” nella storia d’Italia, prevalevano le letture “rivelatrici”, nelle quali il fascismo era lo sbocco, appunto la rivelazione, di tutte le debolezze, le insufficienze, le chiusure classiste dell’Italia liberale. Era una visione ben lontana da quella crociana, ma condivisa anche nel campo liberale, se ad esempio Guido De Ruggiero nella sua Storia del liberalismo europeo a proposito del governo della Destra storica nel 1925 – imperante Mussolini – parlava di “angustia conservatrice”, di “una forma di governo autoritario e perfino dispotico”, non priva di “eccessi reazionari”. La svalutazione dell’Italia liberale ha certamente svolto un ruolo non secondario nella tendenza a “fare tabula rasa” delle istituzioni del passato invocata da Rosselli. Ma l’immagine del fascismo come “autobiografia della nazione”, rivelava mali ancor più profondi. “Il fascismo, si legge nel Socialismo liberale di Carlo Rosselli, va innestato sul sottosuolo italico, e allora si vede che esso esprime vizi profondi, debolezze latenti, miserie ahimè del nostro popolo, di tutto il nostro popolo”. Anni più tardi, in età repubblicana, Nino Valeri, uno storico di matrice democratico-liberale, tratteggiava il fascismo come “una malattia morale-politica, i cui germi risalgono (…) a una costituzionale debolezza della nazione, vissuta per lunghi secoli chiusa in una pratica conservatrice reazionaria, separata dal generale progresso della civiltà”.
Tra gli anni di Rosselli e quelli di Valeri era però cambiato il mondo. L’antifascismo non era più quello storico delle lotte comuni contro le dittature, ma, sconfitto il fascismo sul campo, l’antifascismo aveva assunto un diverso significato, si può dire fosse fenomeno nuovo, tutto ideologico. Fondamentale nella legittimazione della Costituzione repubblicana, avrebbe avuto massimo fulgore nei decenni seguenti, a volte dilatandosi a dismisura. Ora, l’antifascismo-ideologia non rinviava ai valori e ai meccanismi della democrazia liberale, ma appunto a quell’ansia di rinnovamento che aveva ispirato la carta costituzionale, in particolare la sua prima parte, nel redigere la quale comunisti e democristiani avevano inizialmente trovato massima intesa. E se prima della guerra agli occhi dei liberali e democratici il fascismo poteva essere accostato al comunismo come espressione di totalitarismo, ora, scomparso il fascismo storico, il comunismo era ben vitale ed anzi aveva occupato l’intero spazio dell’antifascismo.
Dal lato di questo radicale rinnovamento che evidentemente non sentiva il valore del passato si schierò la migliore cultura liberal-democratica, gli azionisti. Seguivano un impulso presente già all’indomani della Resistenza, o perfino durante la Resistenza da parte di chi invocava un rilancio rivoluzionario del 1920-’21, accompagnandolo con la preoccupazione per un ritorno del fascismo, entrambi elementi – l’invocazione rivoluzionaria e il timore del fascismo – che per molti democratici divennero criteri fondamentali di giudizio del quadro politico nel 1945-’47. Appena nata, la Repubblica era già criticata per i suoi legami con il passato fascista e prefascista. In questo senso, l’estromissione delle sinistre dal governo nel 1947 rappresentò una svolta incisiva, un colpo di stato dissero alcuni comunisti che da allora ne trovarono legittimazione per considerare comunque reazionari tutti i governi che seguirono, così ritagliando per sé uno spazio virtuoso che non li metteva alla prova.
Colpisce semmai l’immediatezza della delusione, che per dichiararsi non aspettò gli eventi: le fu sufficiente la mancata insorgenza rivoluzionaria, l’assenza di un subitaneo, pieno rinnovamento. Viene alla mente la delusione, addirittura la mortificazione, che seguì l’unificazione, nel 1861, una delusione che fu poi alimentata dalle correnti antisistema, radicali, cattoliche, anarchiche, borboniche, ma che fiorì immediatamente all’interno del sistema. Si consideri poi che nel secondo dopoguerra, negli stessi anni nei quali si agitava il sentimento della “Resistenza tradita”, della rivoluzione mancata, si diffuse a sinistra la lettura gramsciana – di matrice leninista – del Risorgimento come mancata rivoluzione agraria. Ma già nel maggio del 1945 Vittorio Foa, partigiano di Giustizia e Libertà, dirigente azionista, denunciò la “crisi della Resistenza”, dove “il disgusto e la stanchezza” sembravano prevalere nel “nuovo tessuto organizzativo della società italiana combattente”. A maggior ragione dopo la caduta del governo Parri, Foa condannò ogni alternativa al “governo della Resistenza”, evocando “l’offensiva reazionaria e fascista che dall’ombra manovrava le convulse mosse dei liberali (…), i vecchi ripieghi del prefascismo (…) i falsi equilibri e i falsi appelli all’unione e alla concordia che già si erano dimostrati di aiuto prezioso alla prima avventura fascista”. Sembra di sentire lo stigma del “socialfascismo” con cui negli anni Venti l’Internazionale aveva deprecato ogni intesa con le forze riformiste.
L’allineamento con la sinistra comunista caratterizzò da allora l’antifascismo. Anche il più democratico. Si pensi alla figura di Piero Calamandrei, massimo tra i costituenti, allo stesso tempo cantore della lotta di Liberazione (“lo avrai, camerata Kesserling…”) ed estimatore della costituzione sovietica del ’36, nella quale vedeva realizzati tutti i tradizionali diritti di libertà nati dalla Rivoluzione francese. Anche Norberto Bobbio, del resto, nel 1955 ha scritto che in Unione sovietica erano stati fatti “grandi passi verso lo stato di diritto via via che esso si è venuto consolidando”. Ai “tradizionali diritti di libertà”, sosteneva Calamandrei, la costituzione sovietica aveva aggiunto l’enunciazione “categorica” dei diritti sociali – quelli che più interessavano i costituenti, anche i giuristi più avvertiti –, cosicché “la Russia sovietica era riuscita a trasformare questi astratti principii di giustizia in realtà di vita vissuta”. Già qui, in questa subalternità si può trovare una ragione del carattere minoritario degli orientamenti liberal-democratici su cui ci interrogavamo all’inizio. Negli anni Cinquanta infatti anche i luoghi di più vivace elaborazione intellettuale, come può dirsi del settimanale il Mondo, seguivano una linea gobettiana-azionista.
Ma se quella cultura azionista era minoritaria perché subalterna a schieramenti largamente egemoni, ancor più minoritaria – anche perché non subalterna – era la cultura liberale di cui parla Pertici. Era una cultura politica “fermamente antifascista, ma non ‘resistenziale’”, che cioè non concepiva la Resistenza come una esperienza rivoluzionaria, destinata a trasformare istituzioni, economia e società e mirava piuttosto a rinnovare la tradizione di libertà politica interrotta dal fascismo. In questo senso seguiva una lettura “parentetica” del fascismo, ma soprattutto assumeva, per dirla con Pertici, che “il problema fondamentale di ogni cultura democratica novecentesca è stato quello di mantenere il giusto equilibrio fra il momento antifascista e quello anticomunista”. Era dunque il suo un antifascismo anticomunista, anzi soprattutto anticomunista, data l’attualità e la vitalità del comunismo rispetto a un fascismo ormai debellato.
Cultura minoritaria? Alcuni dei protagonisti del libro di Pertici occupano grande e vistoso spazio nella storia italiana (a cominciare da Benedetto Croce o Alcide De Gasperi), ma nella “repubblica dei partiti” quei protagonisti furono presto respinti ai margini dalla narrazione dominante, viene da dire che caddero in disgrazia, sovrastati da altri protagonisti (per dare un’idea: è Gramsci, non Croce, il protagonista della cultura italiana di quegli anni, ed è la Dc di Dossetti e di Fanfani a vincere su quella di De Gasperi). Alcune annotazioni su De Gasperi consentono a Pertici di delineare il rapporto del liberalismo con il cattolicesimo. Se il liberalismo di Croce era nettamente laico – e il laicismo aiuta a spiegare il passaggio a sinistra di molta cultura storicistico-crociana – nessuno dei vari cattolicesimi era prossimo al liberalesimo: non quello degli integralisti, le cui posizioni legittimavano lo stigma del “clericofascismo” cara agli azionisti, e non quello dei cattolici progressisti, che avevano dato un contributo determinante alla stesura della Costituzione allineandosi alle sinistre nel perseguire la vocazione sociale, possiamo dire l’eguaglianza più che la libertà. In questo panorama, il liberalismo del cattolico De Gasperi emerge solitario.
Ma più che De Gasperi, gli eroi del libro di Pertici, le sue figure “profetiche” sono altre, come Nicola Matteucci, Augusto Del Noce, Rosario Romeo, Renzo De Felice e altri ancora, lungo una linea che va da Giovanni Ansaldo a Indro Montanelli o Giovanni Sartori. Appartenenti a una generazione nuova – era nato nel 1926 – “noi non abbiamo avuto il tempo di essere degli autentici azionisti – così Matteucci – tuttavia non siamo caduti nella nostalgia dell’azionismo”. Era una generazione che tornava a far riferimento a una cultura liberale di matrice ottocentesca, questa sì crociana, in evidente controtendenza sui loro tempi. Croce aveva infatti scritto di sentirsi liberale allo stesso modo in cui si sentiva napoletano o borghese meridionale: “Tutto il mio essere intellettuale e morale è venuto fuori dalla tradizione liberale del Risorgimento”. Non poteva essere più lontano dai nuovi democratici.
Non stupisce allora che siffatti liberali rimanessero ai margini della cultura politica repubblicana, nella quale un antifascismo non resistenziale non poteva trovare spazio. E men che mai poteva trovarlo un anticomunismo democratico. Se infatti il passare degli anni attenuò l’attualità del discorso antifascista sul fascismo storico, per altri versi accentuò e potenziò il ricorso al fascismo ideologico, un fascismo eterno che consentiva di serrare i ranghi di fronte a ogni paventata rottura dell’unità democratica e ogniqualvolta l’anticomunismo apparisse foriero di sbocchi reazionari. Così successe di fronte all’invasione dell’Ungheria, nel 1956, e di nuovo dopo il 1960 di fronte al governo Tambroni. Il Sessantotto vide poi riemergere una passione rivoluzionaria non priva di sfumature tardoleniniste, ma soprattutto animata da un progressismo che sentiva ogni passato e ogni tradizione come un condizionamento oppressivo. Infine, la grande svolta di fine Novecento, con lo “sdoganamento” della destra postfascista e il suo inserimento nella maggioranza di governo, pietrificò l’opposizione “strutturale” tra fascismo e antifascismo. Di fronte a Berlusconi ci fu chi si domandò, seriamente, se stava tornando il 1922, eterna minaccia che incombe sul paese. L’antifascismo ideologico ha così conosciuto sempre nuove consacrazioni fino a vantare anche proiezioni internazionali: al di là dell’Atlantico la galassia dei gruppi che si scontrano con i suprematisti bianchi, e che in gran parte si proclamano “rivoluzionari comunisti, anarchici e socialisti” che “non hanno alcuna lealtà alla democrazia liberale” sono conosciuti come “antifa”.