Italiani, si fa per dire

Bologna s'inventa uno “ius soli onorario” per i bambini stranieri. Un paradosso

Nicola Pedrazzi

Anche in un comune icona della buona amministrazione lo spettacolo e i tweet si stanno mangiando la realtà. Abbiamo esteso un riconoscimento locale, personale, di carattere eccezionale e privo di rilevanza giuridica (la cittadinanza onoraria) a una condizione strutturale

Non so quanto se ne parli a Roma o a Milano, né se esistano iniziative simili in altri comuni italiani (immagino di sì, e che presto diverrà di moda), qui a Bologna negli ultimi giorni siamo tutti molto fieri di aver inventato una cittadinanza onoraria per i minori stranieri della nostra città, che abbiamo subito twittato come “ius soli onorario”.

 

In pratica abbiamo esteso un riconoscimento locale, personale, di carattere eccezionale e privo di rilevanza giuridica (la cittadinanza onoraria) a una condizione strutturale, collettiva e quantomai bisognosa di una nuova copertura giuridica a livello nazionale (la condizione di straniero, peraltro vissuta dai minori). Lo spread di serietà tra il problema individuato e lo strumento messo a punto si commenta da solo, meriterebbe un silenzio di tomba. Ma gli oltre 60 mila residenti stranieri di Bologna e in particolare gli 11 mila minori che pretendiamo destinatari di questo “progresso civile” meritano un ragionamento. Diverso sia dalla propaganda social del sindaco Matteo Lepore sia dalle levate di scudi dei suoi haters, che in genere non hanno argomenti, come si è visto alle elezioni dell’anno scorso.


Prima dei commenti però stiamo ai fatti, perché con le cose giuridiche non ci si riesce mai. Lo scorso 27 giugno il Consiglio comunale ha approvato una delibera che modifica lo Statuto cittadino in due punti.

 

Prima modifica. L’articolo 2 comma 3 ter, che è il corrispettivo comunale dell’articolo 3 della Costituzione, recita: “Il Comune orienta la propria azione per prevenire e rimuovere ogni forma di discriminazione senza distinzioni di sesso, razza, etnia, nazionalità, religione, opinioni politiche, età, orientamento sessuale, identità di genere e condizione psico-fisica”. A questo comma la delibera ha aggiunto questa frase: “Per questo, il Comune di Bologna si riconosce nel principio dello ‘ius soli’ come mezzo di acquisto della cittadinanza italiana, affermandone l’importanza ai fini della concreta attuazione del principio costituzionale di uguaglianza”.

 

Seconda modifica. Dopo l’articolo 3 sulla tutela dei diritti, è stato aggiunto ex novo un articolo chiamato 3-bis, che istituisce il notiziabile “ius soli onorario”. Con queste parole: “E’ istituita la Cittadinanza onoraria del Comune di Bologna per tutti i minori stranieri residenti a Bologna, nati in Italia da genitori stranieri regolarmente soggiornanti o nati all’estero, ma che abbiano completato almeno un ciclo scolastico o un percorso di formazione professionale in istituti appartenenti al sistema educativo di istruzione e di formazione italiano, come speciale forma di riconoscimento del loro ruolo di coesione tra popoli e culture diversi e per affermare pienamente le libertà fondamentali delle persone”.


Hanno votato queste modifiche tutti i 26 consiglieri di maggioranza (Sindaco, Partito Democratico, Coalizione civica, Matteo Lepore sindaco, Movimento 5 stelle, Anche tu Conti, Verdi); otto consiglieri hanno votato contro (Fratelli d’Italia, Lega Salvini premier) e tre si sono astenuti (Forza Italia e Bologna ci piace).

 

Ora, anche chi considera condivisibili le finalità politiche della delibera converrà sul fatto che entrambe le modifiche allo Statuto pongono dei problemi rilevanti: e proprio sul piano politico prima che formale. Limitatamente al primo “emendamento”, non si capisce perché un comune dovrebbe pronunciarsi per statuto a favore o contro riforme di competenza nazionale, su cui nessun comune ha poteri, e che peraltro sono al vaglio del Parlamento. Ripassiamo: le riforme della vigente legge sulla cittadinanza che sono andate più vicine all’approvazione sono versioni temperate dello “ius soli”, per questo chiamate “ius culturae” e “ius scholae”. La prima, approvata alla Camera durante la scorsa legislatura, rimase ferma in Senato per due anni, nel 2017 i partiti non vollero portarla in aula prima delle elezioni, il capitale politico rimasto in camere a maggioranza progressista venne speso sul testamento biologico; lo “ius scholae” invece arriva alla Camera proprio in questi giorni, e spiega il tempismo del Consiglio comunale bolognese. Il punto è che se Matteo Lepore o altri esponenti del Pd bolognese desiderano, in virtù dei loro valori, battersi affinché il principio dello “ius soli” informi una riforma nazionale socialmente urgente, possono farlo; sono liberi sia di fare politica sia di ricondurre le idee per cui si battono alla cultura profonda della loro appartenenza cittadina: è quello che fece Graziano del Rio nel 2012 quando, da sindaco di Reggio Emilia, aderì alla campagna l’“Italia sono anch’io”, arrivando a presiederne il comitato promotore. Fare politica modificando gli statuti degli enti locali che si governano è tutta un’altra cosa, per il semplice fatto che chi viene dopo di te potrebbe fare lo stesso, e in peggio. Domani il media manager di qualsivoglia sindaco leghista coevo di Lepore potrebbe suggerire al suo capo di incorporare nello statuto cittadino la contrarietà del suo paese allo “ius soli” o a qualsivoglia principio di riforma, magari dichiarandola non conforme all’attuazione della Costituzione. A quel punto con quali argomenti istituzionali e non di parte potremo combattere questa folle campanilizzazione del nazionale?


Ma considerata nelle sue conseguenze la modifica peggiore rimane la seconda: sia per lo snaturamento dell’istituto che si usa come mezzo, sia per gli esiti sulle persone che si ipotizzano come fine. Stando al regolamento del comune sulle onorificenze civiche, la cittadinanza onoraria è un riconoscimento che la città di Bologna attribuisce a persone fisiche non residenti, “che si siano distinte per iniziative di carattere culturale, sociale, filantropico o nell’ambito della tutela dei diritti umani”. Si tratta di criteri di cui non era in possesso nemmeno l’allenatore del Bologna calcio Sinisa Mihailovic, che non si è mai distinto in queste attività, ma cui nel novembre scorso abbiamo concesso la cittadinanza onoraria per le medesime logiche da social network. Ma almeno un criterio “Sinisa” lo osservava: non era un residente. La cittadinanza onoraria nasce infatti proprio per questo, per consentire alle comunità cittadine di riconoscere meriti straordinari a chi è esterno alla comunità. Non solo: essendo un riconoscimento personale e fondato sul merito, il Consiglio comunale che l’ha concesso può revocarlo all’“insignito che se ne renda indegno” (così dice l’articolo 4 del regolamento). Nel momento in cui conferiamo la cittadinanza onoraria in maniera collettiva e slegata dalle responsabilità individuali, esponiamo quindi la categoria che la riceve a una revoca altrettanto collettiva e slegata dal merito: basterà che cambi il colore politico del Consiglio comunale (il che a Bologna è improbabile, ma non è mai un bene trasformare persone, e per giunta infanti, in simboli politici).


Insomma, prendendo seriamente la ratio dell’istituto emerge chiaro il paradosso: per affermare la banalità che i bimbi stranieri che vivono a Bologna per noi valgono tanto quanto i bimbi italiani (e ci mancherebbe altro!) gli conferiremo un riconoscimento fatto per ricordargli che sono stranieri, che non migliora la loro condizione giuridica, che potrà esser loro revocato per ragioni di parte, perché è per ragioni di parte che gli è stato concesso. Leggendo con attenzione i regolamenti comunali sorgono mille dubbi cui i politici locali non hanno risposto, né a mezzo stampa né online: questi bambini figureranno nell’albo curato dal gabinetto del Sindaco? Riceveranno una pergamena nel corso di una cerimonia ufficiale? Se sì a che età, visto che si è minori dalla nascita? Da neonati quando non ne avranno memoria? Ma allora qual è il senso civico? E compiuti i 18 anni, continueranno a essere iscritti nell’Albo, o l’onorificenza è a tempo? Che ne facciamo dei bambini stranieri figli di genitori senza permesso di soggiorno? Perché nel loro caso facciamo valere un criterio legale, se l’onorificenza di conseguenze legali non ne ha, e intende essere un omaggio simbolico all’intercultura? In mancanza di risposte certe a queste domande la conclusione è una sola: Bologna ha annacquato un suo nobile istituto cittadino, trascinando i bambini stranieri che dice di voler difendere nella contesa politica da cui dovremmo tenerli lontanissimi e confondendo le loro famiglie con parole giuridiche cui non corrisponderà alcun miglioramento di status (consiglio caldamente un giro mattutino nei bar della Bolognina per comprendere quanto le famiglie cinesi, indiane e pakistane abbiano compreso la delibera). 


Ciò accade perché il primo problema dei politici contemporanei non sono le persone, ma il posizionamento nel flusso infinito della comunicazione. Il Consiglio comunale non ha lavorato a un problema, ha lavorato alla sincronia politica con i lavori della Camera. Ha lavorato a questo tweet del Sindaco: “Dalle città può nascere un tempo nuovo, che spinga il Parlamento ad approvare riforme per i diritti, per la vita delle persone, per il loro futuro e una reale piena cittadinanza senza ipocrisie. A partire dalla proposta di legge ora in campo detta #iusscholae”. Si obietterà che anche questa dichiarazione è un’azione politica: ma proviamo a misurare la sua etica sugli esiti per le persone che menziona e non sui principi che si evocano per accreditarsi tra i giusti, il nostro giudizio cambierà. A 15 anni dal primo V-Day della Casaleggio in piazza Maggiore lo spettacolo continua a mangiarsi il senso delle parole e l’azione. Soprattutto le forze politiche progressiste, soprattutto chi dice di avere a cuore la riforma e la pace della società, soprattutto chi vive e governa una città ben amministrata, deve ripudiare questo modo di fare. Se non lo facciamo nei prossimi mesi anche nei comuni virtuosi la realizzazione del Pnrr sarà affidata ai media manager dei governanti.

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