Giorgetti e Garavaglia pensano alle dimissioni, poi ci ripensano. Ma nella Lega è tregua armata
Salvini riunisce il vertice del partito a Via Bellerio, e alla fine ribadisce la fiducia a Draghi. Il ministro dello Sviluppo evoca scenari internazionali ("Non possiamo rompere"), ma i gruppi parlamentari ribollono. Intanto in Lombardia arriva la blindatura dalla candidatura di Fontana, almeno per ora
La minaccia tattica era già pronta. L’avevano preparata Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia, concordandola con Massimiliano Fedriga. “Se il problema è che noi ministri siamo troppo draghiani, allora noi consegniamo le nostre dimissioni nelle mani di Salvini. E cosa farà, a quel punto, Matteo?”. E cosa faranno, poi, i suoi vari sottosegretari che a parole fanno i celoduristi? Alla fine, però, l’offensiva che doveva scattare ieri, al vertice di Via Bellerio, è stata rimandata. Sostituita con un ultimatum che forse proprio estremo non è, e che si risolve in una tregua armata tra il segretario e i suoi recalcitranti subalterni: fintantoché Salvini non mette a rischio il governo, la dissidenza interna verrà congelata. Con buona pace delle rispettive truppe, che vivono nell’ansia del 2023.
Perché poi, al di là delle strategie politiche, molta dell’entropia scomposta che travaglia la Lega è collegata alle inquietudini per la cadrega: chi farà le liste, al prossimo giro? Salvini sa che da lì passerà molto della stabilità residua del partito. E per quello, se da un lato continua a mostrarsi risolutamente contrario all’indizione dei congressi provinciali e regionali, così da blindare fino alle elezioni i suoi luogotenenti sui territori, dall’altro ribadisce che la selezione della prossima squadra di parlamentari avverrà “con un gioco di squadra”. Solo che le rassicurazioni bisognerebbe darle a deputati e senatori, che intanto fanno di conto e sanno che, anche al nord, tra il taglio degli scranni e i nuovi rapporti di forza che avvantaggiano Giorgia Meloni, il rapporto potrebbe essere di uno a quattro: per cui ognuno si gira, alla buvette, in Transatlantico, e spera che i tre colleghi che gli sono accanto siano più disgraziati di lui.
“Nel gruppo ormai i tre quarti sono per uscire dal governo, perché si lasciano suggestionare dagli elettori indiavolati”, ripete da giorni il presidente dei deputati, Riccardo Molinari, per spiegare la fatica che gli costa il dover tenere la barra dritta a Montecitorio. Figurarsi allora Massimiliano Romeo, che a Palazzo Madama guida una pattuglia ancor più riottosa, e che vede tra gli antigovernisti proprio lui, il capogruppo. Anche se poi, per converso, la scorsa settimana c’è stato bisogno di un lavoro di convincimento non banale per impedire che tre deputati e due senatori, contrari alla linea barricadera del segretario, salutassero la comitiva per andarsene al Misto.
Perché sarà pur vero, come ha spiegato ieri, al vertice di Via Bellerio, Marco Zanni, capofila leghista al Parlamento europeo, già idolo di Borghi&Bagnai, che il senso di responsabilità non può portare la Lega a rinnegare se stessa, lasciando le praterie dell’opposizione a FdI. E però Giorgetti, irritato come poche altre volte, e stavolta non solo per il mal di schiena che lo tormenta da settimane, è stato chiaro: è talmente alta la posta in gioco a livello internazionale, che qualsiasi pur comprensibile rivendicazione non varrebbe a giustificare una rottura che, dai nostri partner atlantici verrebbe letta solo nell’ottica di un indebolimento di Draghi. “E siccome noi ci candidiamo a governare, non possiamo permettercelo”.
Salvini più che altro ha ascoltato, dicono. E, forse pressato dall’incombenza dell’esame di maturità del figlio, si è sottratto anche al punto stampa. Nel corso della riunione ha però spiegato che no, di rompere al momento non se ne parla (sempre che nel frattempo non ci pensi Giuseppe Conte, a sciogliere per tutti il dilemma). E che però sul fronte delle tasse e del caro energia bisognerà tenere alta la voce. Anche per questo, a livello comunicativo, quello che doveva essere un chiarimento politico è stata descritta, dallo staff del segretario, come una specie di riunione organizzativa. Con un’operazione di disinnesco preventivo che se da un lato tradiva una certa preoccupazione del leader, dall’altro ha indisposto chi, più di tutti, auspicava una resa dei conti. E così dietro l’assenza di Fedriga dal vertice, stando ai pettegolezzi dei maligni, c’è non solo la concomitanza del suo viaggio diplomatico americano, ma anche la volontà di non prestarsi alla pantomima, proprio lui che anche sull’istanza apparentemente più clamorosa, quella della rimozione del nome di Salvini dal simbolo della Lega, ha tenuto le posizioni più intransigenti.
L’impressione insomma è quella di una guerra congelata: un prolungarsi dello stallo, un estremo tentativo di fidarsi delle reciproche promesse, in un clima però di crescente diffidenza e di stanchezza. Anche la questione lombarda, alla fine, s’è risolta quasi più per rabbia, che per convinzione. Perché nella riunione al Pirellone della mattina, quella che ha preceduto il vertice di Via Bellerio, Giorgetti e gli altri assessori leghisti hanno chiesto a Salvini un’investitura definitiva su Attilio Fontana. Perché nel vacillare del capo, in quelle dichiarazioni di fiducia verso il presidente uscente che sembravano sempre manchevoli della giusta convinzione per evitare che dubbi e malintesi si alimentassero, le manovre di Letizia Moratti e di altri potenziali aspiranti alla candidatura trovavano legittimazione. Al punto che sabato, mentre Giorgetti aveva preparato perfino un piccolo arrivo trionfale, in barca con dei pescatori del luogo, per festeggiare il risanamento del lago di Varese, al lido della Schiranna s’è presentata proprio lei, la vicepresidente che ambisce a scalzare il suo presidente. Che quindi ha chiesto un ulteriore, e forse definitiva, blindatura. E’ arrivata, in attesa che le baruffe siciliane del centrodestra vengano a metterla di nuovo in discussione.