Agenda politica
Tra Draghi e Mattarella. Il campo largo ideale e la direzione da prendere
Le richieste di Conte e il pericoloso assalto alla diligenza. I programmi di Meloni (e di Tremonti) e i rischiosi occhiolini strizzati ai nemici dell’Europa. Lezioni di pragmatismo per allontanare nuove pulsioni gialloverdi
Il tempo è galantuomo, misura di tutte le cose. Bisogna rispettarlo: la fretta è pessima consigliera, agire d’impulso espone a pericoli grandissimi. Meditare oportet. Il tempo aiuta a maturare, correggere, individuare la cosa giusta. A vedere i frutti della semina. Abbiamo davanti a noi un orizzonte politico di governo che abbraccia il prossimo lustro, una base di partenza programmatica costituita dal Pnrr che sarebbe delittuoso perdere, un lavoro iniziato da un anno e mezzo che reclama continuità d’intenti. Dobbiamo e vogliamo continuare a dare forma a un elemento vitale e indispensabile come l’acqua, che nel nostro caso si definisce “agenda Draghi-Mattarella”. Un elenco di impegni ribadito solennemente il 3 febbraio scorso dal nostro Presidente della Repubblica nel suo giuramento alle Camere e accolto da una ventina di standing ovation.
“Non possiamo permetterci ritardi, né incertezze – ha detto Sergio Mattarella –. Viviamo una fase straordinaria in cui l’agenda politica è in gran parte definita dalla strategia condivisa in sede europea. L’Italia è al centro dell’impegno di ripresa dell’Europa. Siamo i maggiori beneficiari del programma Next Generation e dobbiamo rilanciare l’economia all’insegna della sostenibilità e dell’innovazione, nell’ambito della transizione ecologica e digitale. La stabilità di cui si avverte l’esigenza è, quindi, fatta di dinamismo, di lavoro, di sforzo comune”.
Il programma che c'è e il vero campo largo
Il programma del futuro, perciò, è questo del nostro presente, questo che stiamo portando avanti e che attende solo di proseguire nella sua attuazione. Nei suoi sedici mesi di attività il governo Draghi, di cui mi onoro di far parte, ha posto più di un seme: mai sono state fatte così tante riforme, e in così poco tempo. Abbiamo appena raggiunto tutti i 45 obiettivi del Pnrr che dovevamo centrare entro il 30 giugno 2022. Considerando quelli già ricevuti, in un solo anno avremo ottenuto 70 miliardi di euro, e siamo soltanto all’inizio. Il leader del M5s, Giuseppe Conte, chiedendo “discontinuità”, ha presentato l’altro ieri al premier Draghi un documento di nove punti. Punti in gran parte già attuati, come il reddito di cittadinanza riformato dalla legge di bilancio per il 2022, o per i quali sono state già individuate le possibili soluzioni, nel quadro di un dialogo costruttivo e pragmatico tra le forze di maggioranza. Vale per il salario minimo agganciato alla contrattazione e per la ripartenza della cessione dei crediti per il superbonus 110%.
Ma c’è un “ma”: che in questa fase si possa riaprire una nuova stagione di “assalto alla diligenza” in vista delle prossime elezioni. Sarebbe un metodo perdente, persino autolesionista rispetto al grande lavoro fin qui svolto. Invece di cercare alambicchi e astruserie lontane dalla gente, perché non partire dai risultati ottenuti? Perché non cercare di capire chi ha il programma adatto a replicarli in futuro e raccogliere responsabilmente un rassemblement attorno a queste energie? Questo sarebbe il vero “campo largo” da perseguire con determinazione, altroché. Un’unione di forze serie e responsabili che adotti il metodo usato in questi mesi: una concretezza forse tacciata ancora di follia, nel Paese che ama talvolta trastullarsi con saltimbanchi, e magari si diverte quando la vena creativa viene eletta a sistema per sbarcare il lunario.
L’esame di maturità: un patto trasversale sulla legge di Bilancio
La crisi di queste ore si può superare, se ciascuno raccoglie nelle proprie mani il destino e dà tempo al tempo. Un grande accordo trasversale sulla legge di bilancio prossima ventura – che riguarderà l’anno delle elezioni politiche e del nuovo governo – sarebbe una prova di responsabilità: via le bandierine e le “mance” elettorali, si ragioni insieme sulle esigenze reali del Paese per chiudere la fase emergenziale e ricomporre i temi che sembrano divisivi quanto più ci si avvicina alla prova elettorale. Le urne, che possono giungere a maggio rispettando il dettato costituzionale, saranno uno spartiacque cruciale. Già si sprecano in giro formule e ricette per la vittoria. Ma cercare di accaparrarsi la fascia degli indecisi che nelle ultime due settimane di campagna elettorale consente una vittoria al fotofinish non sarebbe una buona strategia. Così come investire nella “speranza” (leggi: promesse irrealizzabili). Non si è capito che quel tempo è finito, che le ricette velleitarie o illusorie, le suggestioni mélenchoniane spingono ancora più nel profondo le radici della disaffezione, dello smarrimento, del rifiuto degli elettori verso la politica. Tramutandola in arte dell’immaginario quando essa è, e sempre più dovrebbe essere, arte del possibile e del concreto.
Il successo del civismo pragmatico e delle forze più leali all’agenda Draghi
La realtà ci dimostra, invece, tanta voglia di chiarezza, coerenza, serietà. I sondaggi premiano, ovviamente, la rendita di chi fa il suo mestiere di opposizione come Giorgia Meloni. Ma premiano anche, e i test elettorali lo corroborano, le forze maggiormente leali nel sostegno all’esecutivo e all’agenda Draghi-Mattarella (Forza Italia e Pd di governo, non certo quelle frange che inseguono le chimere del populismo). Il successo del realismo civico di alcuni sindaci e candidati è una conferma dell’attenzione al pragmatismo, al fare possibile e al fare bene. Scegliere la strada del futuro sarà facile, se privilegeremo l’“interesse degli italiani” (oseremmo persino scrivere “patriottico”) e analizzeremo lo scarto che esiste, a volte facendosi voragine, tra i vincoli sovranazionali e l’opinione pubblica. Abbaiare alla luna della sovranità perduta per colpa dell’Europa di certo non sarà compatibile con il completamento della nostra opera e con le riforme che richiede il Pnrr.
Gli “Appunti per un programma conservatore” di Meloni
Prendiamo, per esempio, gli “Appunti per un programma conservatore”, l’impianto programmatico presentato a fine aprile a Milano da Giorgia Meloni all’avvio della sua bella convention. Una base, come su queste colonne ha scritto il direttore Cerasa, che dovrebbe costituire il “collante” di un’eventuale coalizione di destra-centro a trazione FdI. Giusto, certo, difendere il “made in Italy”, dare priorità alla sicurezza e alla legalità, rilanciare l’economia nazionale con ogni mezzo. Legittimo il contrasto all’immigrazione irregolare. Ma chiedere la “clausola di supremazia in Costituzione per bloccare accordi e direttive nocivi per l’Italia”, alla tedesca e anche di più, e la riscrittura “di tutti i trattati Ue a partire dal fiscal compact e dall’euro”, senza un progetto in positivo di “più Europa”, come può conciliarsi con la nostra permanenza a pieno titolo sui tavoli europei e il compimento del Pnrr? Teorizzare, come è stato fatto a Milano da Giulio Tremonti, concetti sfuggenti quali “la fine del mondo globale”, la “Repubblica internazionale del denaro”, la “Confederazione degli Stati europei” che smonti a uno a uno i pezzi della faticosa architettura dell’Unione, come riuscirebbe ad accrescere la nostra credibilità a Bruxelles, faticosamente riconquistata dal governo Draghi?
Se il “baricentro del centrodestra” fosse davvero rappresentato da Meloni, cosa che secondo Luca Ricolfi sarebbe già nei fatti (?!?), non si rischia che queste ricette da “conservatorismo corporativo” diventino l’asfittico rinchiudersi del Paese in un’autarchia sovranista che prelude a una cosa soltanto, alla fine del Pnrr, delle politiche espansive, della crescita in un mondo interdipendente? Questo, senza neppure voler prendere in considerazione un eventuale, odioso “fuoco di sbarramento” che dovesse profilarsi contro una Meloni premier in campo europeo e internazionale (ancora duole il ricordo di un ministro belga, peraltro nome e origini italiane, che per vieto pregiudizio nel 1994 si rifiutò di stringere la mano a uno degli uomini più armoniosi, miti e gentili mai conosciuti, Pinuccio Tatarella).
Il distopico “contratto di governo” gialloverde
Credo che anche il passato recente di questa legislatura, partita con il governo più ribelle e scettico verso l’Europa e finita con quello più affiatato all’Unione, ci consenta di trarre lezioni e insegnamenti importanti. Era il 17 maggio del 2018, quando Luigi Di Maio (prima maniera) e Matteo Salvini firmavano davanti al notaio ciò che veniva pomposamente definito “Contratto per il Governo di Cambiamento”. All’epoca ebbi modo di mettere in guardia Salvini, ricordandogli come esso rappresentasse “il più grande esempio di azzardo morale della storia politica italiana, essendo frutto di due partiti del tutto antitetici tra loro, con visioni della società e dell’economia totalmente opposte e con proposte irrealizzabili, scritte con il solo intento di riscuotere un premio elettorale, ai quali è stata inculcata la credenza che i danni prodotti dalle politiche economiche del governo siano colpa di altri, di quelli che sono venuti prima: l’Europa matrigna, i cattivi capitalisti, gli speculatori senza scrupoli…”.
Un documento di 58 pagine, tutto improntato alla “buona fede e leale cooperazione”, al punto da prevedere e normare, dettagliatamente, persino l’“impegno a discutere in modo adeguato” e a “fornirsi informazioni esaurienti”. Come se tra alleati esistessero altri modi, meno urbani e probabilmente più spicci, di poter risolvere diatribe e disaccordi. Non seguirò l’ordine gerarchico di quel documento, considerato che fuoriesce da un’assodata tradizione programmatica e che vede al primo punto l’“acqua pubblica” e al secondo “agricoltura e pesca”. Quando si arriva al tema della politica estera, decimo punto, sorprendentemente possiamo rileggere che “si conferma l’appartenenza all’Alleanza atlantica con Stati Uniti alleato privilegiato”, ma nel contempo viene declamata un’ampia “apertura verso la Russia, da percepirsi non come una minaccia, ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante. A tale proposito – si legge – è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)”.
E ancora: “non costituendo la Russia una minaccia militare, ma potenzialmente un partner per la Nato e la Ue…”. Bando alle facili ironie, perché nessuno avrebbe potuto prevedere che la crisi con l’Ucraina arrivasse fino alla scellerata invasione, però non era affatto ignota la situazione dei diritti civili e delle libertà a Mosca, così come solo per ingenua superficialità si passava sopra al vizio congenito russo dell’imperialismo militare visto come metodo risolutivo di controversie internazionali. Ma è sulla politica economica che il programma di governo “gialloverde” trova l’apoteosi di quello scarto tra idee e realizzazioni che ne costituirà la condanna: senza risolvere alcunché rispetto al debito e al deficit (nonostante la buona volontà e la competenza tecnica del bravo ministro Tria) e ai mille problemi che affliggevano il Paese anche prima del Covid, il programma rilanciava i due cavalli di battaglia dei contraenti: reddito di cittadinanza e quota 100, che troveranno posto in manovra, con conseguenze sociali ed economiche che stiamo ancora pagando.
Deriva che denunciai in tempi non sospetti (era l’aprile 2019): “La filosofia assistenzialista di Lega e Movimento Cinque Stelle, sulla quale il reddito di cittadinanza e la quota 100 sono fondate, ha prodotto disastri irreparabili sul mercato dell’occupazione... Mentre all’estero i governi hanno puntato sulle politiche economiche necessarie per aumentare i salari, questa maggioranza è riuscita a creare un sistema che disincentiva il lavoro, facendo credere che il godere del reddito di cittadinanza possa garantire una vita dignitosa, non dicendo, invece, che quella forma di assistenzialismo è solo una trappola della povertà dalla quale è poi difficile uscire”. Quell’“abbiamo abolito la povertà”, gridato con giovanile entusiasmo dal balcone di Palazzo Chigi, resterà il simbolo della stagione onirica vissuta grazie al populismo illusionista. Quasi quanto la vendetta perseguita e perpetrata nei confronti della “Casta” con la riduzione dei parlamentari – prevista nel programma del Conte uno, ma realizzata solo dal Conte II.
Una riforma inutile che non troverà mai senso né risultati nel contenimento dei costi o nell’efficienza della macchina legislativa. Per non dire del giustizialismo cui fu ispirato l’intero comparto della giustizia, poi tradotto dal ministro Bonafede nella sua riforma della prescrizione, oggetto della prima insanabile crepa nell’innaturale alleanza che, poco dopo, alla vigilia del Ferragosto del 2019 trovava ingloriosa morte tra il Papeete e le rotaie del supertreno Tav.
La stagione giallorossa e l’accordo di legislatura
Non dissimile, per quanto con mille giustificazioni in più, la stagione del secondo e assai più sobrio “accordo” di legislatura, quello tra M5s e Pd per il varo del Conte II. Un impianto di sicuro più realistico, che cominciava a rimettere in asse il timone verso Bruxelles, ma che perseverava ancora in molte concessioni all’apparato ideologico che aveva ubriacato il Paese fino a fargli credere di poter aprire la politica italiana come una “scatola di tonno”. Su giustizia e lavoro, la discontinuità con i gialloverdi non si è vista. Complice anche la situazione drammatica dovuta alla pandemia, l’alleanza che si era fatta “giallorossa” non riuscì neanche a distinguersi nell’interlocuzione costruttiva con l’Europa.
Attenuatasi la sospensione-da-Covid della politica, ecco perciò riaffiorare quelle stesse difficoltà e lo scetticismo che nelle cancellerie europee aveva accompagnato la prima scalata dei “nuovi barbari” al Palazzo. In ogni caso, onore al merito per l’allora premier Conte, che è stato capace di trovare i soldi a Bruxelles per un piano di trasformazione dell’Italia, ma peccato che il suo governo non sia stato poi in grado, per divergenze politico-programmatiche insanabili nella sua maggioranza, di mettere a punto il menu di come quei soldi dovevano essere spesi. Mancò l’ultimo miglio: la necessaria e puntuale sintesi dei capitoli sui quali indirizzare gli investimenti. Uno scontro di potere degno di miglior causa che portò alla rovina di quell’esperimento.
Ho voluto ricordare le esperienze dei due governi che hanno preceduto l’attuale perché rappresentano una significativa lezione politica per l’oggi e (anche) per il domani: abbiamo ricevuto la conferma che l’Italia ha bisogno di un solido ancoraggio ai suoi storici riferimenti internazionali, di capacità amministrative e manageriali per portare ad esecuzione i progetti del Pnrr, e di coraggio riformista per mettere in discussione le sue storiche rigidità e dare continuità al processo trasformativo che il governo di unità nazionale ha aperto. Questi obiettivi saranno centrati se i partiti che sostengono con convinzione l’agenda Draghi-Mattarella avranno il coraggio di farne la sostanza della propria offerta politica in questo finale di legislatura e soprattutto nella stagione elettorale che si apre, liberandosi dagli schemi e dai vincoli di un bipolarismo ormai inattuale in favore di una riforma elettorale di stampo proporzionale, la sola in grado di garantire la stabilità necessaria per concretizzare le fondamentali transizioni previste dal Pnrr.
Il sogno di una legge di bilancio, preludio di una nuova etica politica e coronamento del “metodo” inaugurato da questo governo, non è un miraggio. L’interesse e il consenso crescente che questa prospettiva ha ricevuto e potrà ricevere dai cittadini dovrebbe esortare tutte le forze politiche responsabili a osare di più, ammainando le proprie insegne. Ne va della nostra credibilità in Europa e nel mondo, ma anche, a ben vedere, della tenuta della nostra democrazia rappresentativa