Il manifesto
“Liberiamo il Green deal dall'ideologia”. Lettera al Foglio di Andrea Orlando ed Enzo Amendola
La decarbonizzazione è cruciale, ma la transizione non può diventare una spinta alla deindustrializzazione dei nostri paesi. Limitarsi a fissare target non basta: serve un nuovo patto europeo. Manifesto per la sinistra del futuro
Gli autori sono il ministro del Lavoro e il sottosegretario agli Affari europei del governo Draghi
Tragedie come quella della Marmolada ci dicono quanto sia urgente agire. La crisi climatica ha bisogno di politiche globali e l’Europa deve giocare da leader. L’Ue ha la grande ambizione di essere la capofila della transizione verde e di guidare la nuova rivoluzione industriale su scala globale. Ottimi propositi, però serve un metodo politico imperniato su un riformismo sostenibile. Questa è la via per garantire la riuscita della più grande rivoluzione del nostro tempo, mettendo al centro i bisogni delle persone.
Ma andiamo con ordine. Cos’è successo negli ultimi anni? A fine 2019 la Commissione europea ha lanciato il Green deal, un piano per fare dell’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050, grazie all’azzeramento delle emissioni nette di gas a effetto serra. La “cassetta degli attrezzi” per raggiungere questi obiettivi è nel pacchetto di misure “Fit for 55”, presentato dalla Commissione a luglio 2021, che mira a ridurre i gas climalteranti di almeno il 55 per cento già entro il 2030. Nelle ultime settimane vi è stato uno scatto negoziale dovuto ai voti dell’Europarlamento (non senza contrasti nella maggioranza di Ursula von der Leyen) e ai recenti accordi in seno al Consiglio dei ministri dell’Ambiente dell’Ue. Questa accelerazione porterà nelle prossime settimane alla trattativa finale fra le tre istituzioni europee sul “Fit for 55”. Senza dubbio, gli effetti del conflitto in Ucraina sulla questione energetica hanno spinto il negoziato a una velocità superiore a quella richiesta dalla complessità della materia. Vi hanno contribuito anche le ultime proposte della Commissione (denominate RePowerEu) che, pur dando ampia considerazione alle difficoltà di una transizione a tappe forzate, sottolineano l’urgenza di emanciparsi da rischiose dipendenze geopolitiche. Chi pensava che il Next Generation fosse il negoziato europeo più complicato, si ricreda rapidamente, poiché è con “Fit for 55”, con l’insieme delle sue direttive e regolamenti, che si scende nel dettaglio, incidendo direttamente e plasticamente sulla vita delle imprese e delle persone. Un cambio di paradigma ancora più drastico di quanto lo fu l’avvento della globalizzazione, motivo in più per evitare errori analoghi a quelli commessi negli anni Novanta, quando il fenomeno sembrava un destino inevitabile, ma nessuno si premurò di governarlo.
Il 'Fit for 55' è un cambio di paradigma ancora più drastico di quanto lo fu l’avvento della globalizzazione, motivo in più per evitare errori analoghi a quelli commessi negli anni Novanta
Non deve allarmare dunque il confronto aspro. Anzi, forse sarebbe il caso, anche a livello nazionale, di trascurare le nostre piccole polemiche quotidiane, profondendo energie intellettuali e politiche sulle idee per il futuro e sulle conseguenze di scelte di enorme portata. Per rendere un’idea, basti un parziale sommario delle misure che Parlamento, Consiglio e Commissione dovranno discutere e implementare con nuova legislazione: si va dal Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism), che aumenta il costo delle importazioni da paesi meno virtuosi dell’Ue in termini di emissioni, alla rivoluzione nella mobilità con la riduzione del 100 per cento entro il 2035 delle emissioni di CO2 prodotte da veicoli nuovi. Sul tavolo ci sono anche l’incremento dell’efficienza energetica e il potenziamento della capacità di ricarica elettrica per il trasporto su strada e dei carburanti alternativi per i trasporti marittimi e aerei. E poi la revisione del sistema di scambio delle quote di emissione di gas climalteranti (ETS) e il potenziamento delle fonti rinnovabili.
Ce n’è abbastanza, ma non è questo il luogo per affrontare queste questioni. Ci interessa invece rendere la necessità di governance della transizione. Come detto, il Green deal è figlio degli Accordi di Parigi sul clima siglati a fine 2019, cioè prima della pandemia da Covid, scelta confermata poi in tutti i passaggi istituzionali, anche grazie alla benefica pressione dell’opinione pubblica, specie della sua parte più giovane. L’Europa ha quindi lanciato una sfida al mondo sugli obiettivi climatici, ritrovando lungo la strada alcuni alleati, vedi gli Usa dopo la presidenza di Trump; come pure interlocutori un po’ più freddi, per lo meno sui tempi, come Cina e India. La strada è comunque segnata. Il punto è adesso come percorrerla e quali ostacoli evitare lungo il percorso. Partiamo da questi e in particolare da uno dei più grandi, che in forma di slogan potrebbe suonare così: non mettiamo la transizione solo nelle mani dei ministri competenti. Al G7 in Germania il presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato che non possiamo permetterci gli stessi errori commessi con la crisi del 2008 e ha aggiunto che “la crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo”. Affinché ciò accada, occorre quindi una risposta di ampia portata da parte dell’Europa, che non disgiunga mai transizione ecologica, crescita economica giusta e inclusiva e nuove opportunità di occupazione.
Non mettiamo la transizione solo nelle mani dei ministri competenti.
Questo è un punto dirimente. Per affrontarlo dobbiamo sciogliere alcuni nodi che bloccano la discussione. Per esempio, ci gioverebbe molto accantonare l’improduttiva contrapposizione tra chi vuole tutto e subito, costi quel che costi, e l’approccio negazionista di chi resterebbe tranquillamente a guardare. Non fanno meglio nemmeno alcune dichiarazioni a Bruxelles, in cui un po’ pedantemente ci si limita a definire target o a indicare soglie massime, sicuri che mercato, produttori e lavoratori si adegueranno senza batter ciglio. Una visione magica e burocratica, ignara di quanto siano faticose, costose e complesse le innovazioni dei processi produttivi. Non che convincano le tesi opposte, quelle di chi non vede i limiti del consumo delle risorse ambientali e non crede nelle risposte dell’innovazione tecnologica. Forse aiuterebbe di più superare questi estremi con un’idea diversa di politica industriale, basata su di un pragmatismo produttivo e un riformismo sostenibile. Ci rendiamo conto che non suona glamour, ma crediamo riassuma bene un preciso approccio alle gigantesche questioni con cui ci misuriamo. Dobbiamo raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, ma con l’ambizione di accrescere la competitività economico-industriale europea su scala globale, non di avviarci verso la deindustrializzazione dei nostri paesi. Lo ha detto bene Ermete Realacci, figura storica dell’ambientalismo: “L’Europa non deve affrontare la sfida dei cambiamenti climatici ‘per far contenta Greta’, ma per rendere più forte la Ue davanti alle sfide del nostro tempo, clima in testa, e per renderla un punto di riferimento nel mondo”.
Dobbiamo raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, ma con l’ambizione di accrescere la competitività economico-industriale europea su scala globale, non di avviarci verso la deindustrializzazione dei nostri paesi.
Così forse è più chiaro il riferimento ai ministri competenti. Limitarsi a fissare target, stilare tabelle, indicare coefficienti, nella speranza di ingabbiare i mutamenti del nostro tempo, suona già vecchio e non aiuta nella mobilitazione delle coscienze. Non è sufficiente fissare obiettivi ambiziosi e poi attendere che il mercato si adegui automaticamente rivoluzionando prodotti, processi e filiere, tanto più che l’Europa, il più grande mercato libero, non primeggia per investimenti in ricerca e sviluppo. Il Green deal è certo la risposta ai cambiamenti climatici, ma pure l’occasione per ricostruire su basi nuove la nostra capacità economica e industriale. Agli scettici di casa nostra non serve replicare con un’alzata di spalle né con inoppugnabili teorie apocalittiche sul clima. Faremmo piuttosto notare la convenienza di investire su noi stessi, puntando a nuove soluzioni tecnologiche e a produzioni non meno esportabili delle attuali, unendo necessità e convenienza.
Limitarsi a fissare target, stilare tabelle, indicare coefficienti, nella speranza di ingabbiare i mutamenti del nostro tempo, suona già vecchio
La seconda grossa buca riguarda l’impatto sociale. Servono regole che rendano le transizioni (anche quella digitale) socialmente sostenibili, individuando anche nuovi diritti e nuove garanzie, coerentemente col modello economico europeo attento alla coesione sociale e ai diritti del lavoro. Vediamo con il pragmatismo di cui sopra come sia possibile rendere concreta e fattibile la transizione, evitando “le buche più dure”, per prendere in prestito un verso di Lucio Battisti. Sicuramente la decisione di destinare per questi obiettivi i fondi stanziati dal Next Generation Eu va nella direzione giusta, ma serviranno investimenti ulteriori: il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni, a ottobre scorso, ha stimato per le “transizioni gemelle” (verde e digitale) un fabbisogno che ammonta a 650 miliardi annui fino al 2030, dei quali 520 per la sola transizione verde. Aiutandoci con una proporzione e con le stime di Confindustria, possiamo dire che per l’Italia questo significherà circa 70 miliardi l’anno. Logico dunque, come sta accadendo, che si rinegozino le regole del Patto di stabilità e crescita, evidentemente incompatibili con le sfide sopra indicate e i loro costi, aggravati peraltro dall’attuale contesto inflattivo che certo non aiuta.
Servono regole che rendano le transizioni (anche quella digitale) socialmente sostenibili
Nel frattempo molti settori cominciano a comprendere la necessità del cambiamento. Vediamo ad esempio che mercati e finanza si stanno orientando verso progetti green, accompagnando molti player industriali a loro volta già partiti su questa via senza esitazioni. Segnali positivi, ma pragmatismo vuol dire attenzione a tutte le filiere soggette a trasformazione, anche quelle più complesse: agricoltura, manifatturiero, automotive, i settori cosiddetti “hard-to-abate”, nei quali è più difficile ridurre in modo drastico le emissioni (acciaio, cemento, ceramica, chimica, carta, vetro). In questi settori non ci si può limitare a imporre target, ma servono strumenti concreti di politica industriale come mai se ne sono adottati in Europa che, per come è stata costruita, è sempre stata più incline a definire regole di concorrenza che a sostenere gli investimenti. Uno strabismo oggi pernicioso, visto che, nel quadro delle transizioni, la competizione non è tra i 27, ma tra Europa e resto del mondo.
Nei settori "hard to abate" non ci si può limitare a imporre target, ma servono strumenti concreti di politica industriale come mai se ne sono adottati in Europa
A questo proposito, oltre al Next Generation e ai fondi del bilancio europeo 2021-2027, dobbiamo sfruttare appieno il potenziale di programmi come InvestEu, gestito in Italia da Cassa depositi e prestiti e che stimolerà investimenti per oltre 372 miliardi di euro; e il citato “RePowerEu”, per la diversificazione energetica e le infrastrutture di connessione energetica di nuova generazione, a partire dall’idrogeno. Il programma “Horizon” sarà invece utile per spingere la ricerca scientifica applicata, il Fondo per l’innovazione per sostenere la decarbonizzazione dei settori industriali, e il Fondo sociale per il clima per aiutare le famiglie e le microimprese più esposte ai costi della transizione verde. Dobbiamo inoltre irrobustire la nostra capacità di produzione di semiconduttori attraverso il Chips Act che, catalizzando 43 miliardi di risorse, dovrebbe portare all’Europa una quota di mercato globale del 20 per cento entro il 2030. A questo si aggiunge un Raw Materials Act, che la Commissione si appresta a proporre per diversificare il nostro import di materie prime critiche e migliorare le nostre capacità nel loro riciclo.
La Commissione si appresta a proporre per diversificare il nostro import di materie prime critiche e migliorare le nostre capacità nel loro riciclo.
Le tecnologie digitali come l’intelligenza artificiale, il cloud computing e il 5G, nonché i settori farmaceutico e medicale, richiedono investimenti più rilevanti, così come occorre utilizzare al massimo il potenziale di iniziative a livello industriale come gli Ipcei (Important Projects of Common European Interest), nell’ambito dei quali già oggi diversi attori economici di vari Paesi lavorano insieme su progetti come la microelettronica e le batterie. Tutte mosse necessarie per limitare la nostra dipendenza da paesi come la Cina, che gioca un ruolo di primo piano nel controllo delle materie prime critiche e delle tecnologie necessarie alle transizioni.
Infine, dobbiamo pensare anche a soluzioni nuove ma già collaudate, confermando programmi come Sure – nato durante la pandemia, con 100 miliardi di dotazione, per il mantenimento dell’occupazione – da utilizzare per investimenti a sostegno di buona occupazione nella transizione green e digitale. Strumenti e fondi ci sono, l’inversione di tendenza rispetto al rigorismo con cui abbiamo risposto alla crisi del 2008 è netta ed è un fatto assolutamente positivo. Rimane la necessità di governare e indirizzare in modo intelligente e pragmatico le nostre politiche.
Questo il quadro d’insieme, ma se si fa ancora un passo indietro si nota un’altra cornice che non va trascurata, quella geopolitica. Le scelte europee non andranno fatte solo per competere, ma anche per sviluppare nuovi partenariati di cooperazione allo sviluppo, cominciando dall’Africa, dove per esempio il trasferimento tecnologico in ambito energetico e in chiave ecosostenibile può riguardare centinaia di milioni di persone che oggi non hanno accesso alle fonti energetiche tradizionali.
Bisogna sviluppare nuovi partenariati di cooperazione allo sviluppo, cominciando dall’Africa
Se le dimensioni delle questioni sono queste, diventano incomprensibili certe nostre contrapposizioni irrealistiche e paralizzanti, soprattutto perché non rendono giustizia al paese reale e ai suoi primati, come quello che ci vede leader in Europa in termini di economia circolare. Grandi imprese e pmi sono già orientate verso soluzioni tecnologiche verdi di grande valore. Ma in questo sforzo epocale è l’intera società che deve attivarsi, e le istituzioni europee per prime. Filiera per filiera, senza furori e con l’impiego intelligente delle risorse, consapevoli che la neutralità climatica è il mondo che abiteremo in un futuro che è già arrivato.