Letta sta con Draghi, ma teme la trappola di Conte. E lavora per evitare la crisi
Il sostegno all'ex capo della Bce non è e non sarà in discussione, ma restare soli al governo con la destra è l'uncubo del Nazareno. La riunione d'urgenza dei dem, Orlando studia un compromesso insieme a Palazzo Chigi. I contatti tra il segretario, il premier e il leader del M5s. E Boccia vagheggia le primarie di coalizione
Mentre gli eventi precipitavano, Francesco Boccia trovava il modo di puntellarli: “Dobbiamo estendere il modello Sicilia a livello nazionale: servono le primarie di coalizione con tutti i leader del fronte progressista, anche in vista di una eventuale fine anticipata della legislatura”. Lo ripete da giorni, il responsabile degli Enti locali del Pd, e lo ha suggerito anche ai due principali potenziali diretti interessati, ospiti pochi giorni fa di una iniziativa politica a Bisceglie. Ed è parso a tutti un eccesso di ottimismo della volontà, un modo per mettere una camicia di forza a un’alleanza che nel frattempo perdeva consistenza. E così ieri, alla prova dei fatti, mentre il M5s disertava il voto alla Camera sul dl Aiuti, e annunciava prove di forza in vista del passaggio al Senato di giovedì, da Palazzo Chigi rispondevano agli ambasciatori del Pd col tono di chi vuole mettere tutti sull’attenti: “Fate capire anche voi a Conte che conviene a tutti trovare un soluzione”.
Ed è proprio per quello, per inventarsi un compromesso, che Andrea Orlando si dilunga con Mario Draghi per definire un possibile pacchetto di misure sociali, da annunciare oggi dopo l’incontro coi sindacati. Eccolo, il calumet della pace da porgere a Conte. “Del resto quella salariale è anche e soprattutto la nostra ossessione, un punto decisivo della nostra agenda”, dirà poi il ministro del Lavoro nel vertice pomeridiano che Letta convoca d’urgenza con lo stato maggiore del partito.
Il segretario gioca il ruolo della forza di interposizione: è dì da giorni, nel mezzo di un asse che vede ai due poli il premier e il leader grillino, e con entrambi parla, a entrambi prova a suggerire – ancora in queste ore – possibili convergenze. Un equilibrio, insomma, da trovare in movimento. Letteralmente, perfino. Perché il segretario del Pd è in Francia, reduce da un conferenza economica in Provenza, e alla riunione deve collegarsi da remoto. Lorenzo Guerini è in partenza per Washington, con già in mano i dossier sulla guerra in Ucraina. Enzo Amendola, altro tessitore, è in missione a Madrid per parlare della cooperazione tra Ue e Africa. Superbonus? Inceneritore? What?
Eppure Debora Serracchiani, capogruppo alla Camera, riferisce le parole distensive di Federico D’Incà, contiano eterodosso, sinceramente riluttante alla rottura. “Dovete fidarvi, vedrete che non romperemo”, insiste il titolare dei Rapporti col Parlamento. E per ora tanto deve bastare, ai dem, se è vero che dal Nazareno arriva l’ordine di non rispondere alle provocazioni grilline. Perfino quando Davide Crippa, il leader del M5s a Montecitorio, attacca frontalmente Roberto Gualtieri, i banchi del Pd mugugnano ma si contengono. Stesso discorso al Senato, che giovedì sarà teatro della battaglia più delicata. Simona Malpezzi ai suoi lo va ripetendo da giorni: “Evitiamo in ogni modo di alimentare la polemica”. Perché sarà pur vero che, come dice Orlando, che “Conte non aspetta altro che un motivo per non farla, la crisi”. Ma tra i dem notano la comunanza di vedute tra Matteo Renzi e Dario Franceschini: entrambi convinti, benché con spirito diverso, che dopo la scissione di Di Maio, giudicata prematura da tutti e due, la forza d’inerzia della politica spinge inevitabilmente Conte a cercare nuovi spazi, e dunque a voler rompere, anche senza volerlo.
E qui sta la paura di Letta. Il restare intruppato lì, in un governo di larghe intese da cui certo il Pd non si sfilerebbe, se a battezzarlo fosse Sergio Mattarella, ma di cui il Pd si ritroverebbe a essere l’unica controparte alla destra. Il sostegno a Draghi, per Letta, non è in discussione (“La nostra linea è sovrapponibile a quella del premier”). E non lo sarebbe neppure se Conte scegliesse la via dell’opposizione, costringendo il premier, su indicazione del Colle, a sostituire chirurgicamente i ministri grillini e tirare avanti. Ma avrebbe un prezzo politico difficilmente prevedibile, e magari porrebbe anche fine a quella pace interna così faticosamente costruita dal segretario: e per rimettere insieme i cocci, poi, non basterebbero soluzioni fantasiose, neppure le primarie di Boccia. Per questo, ancora a ora di cena, al Nazareno si preferisce credere all’ottimismo di Orlando: “Una soluzione si trova”.