La crisi di governo
Salvare Draghi, whatever it takes
Senza l'ex presidente della Bce l’Italia è più debole, ma gli anticorpi per non chiudere la parentesi ci sono. Andare al voto? No panic
Per chi in questi mesi ha considerato la stagione del governo Draghi come una manna dal cielo, augurarsi che l’ex governatore della Bce possa continuare il più a lungo possibile la sua esperienza a Palazzo Chigi è un sentimento più che naturale. E la tentazione di dire massì, maddai, ma che ci fa, ma in fondo non è la fine del mondo se un partito a pochi mesi dalle elezioni esce dalla maggioranza, è quasi irresistibile. Com’è che si diceva? Whatever it takes, mr president. Eppure, arrivati al punto in cui ci si trova oggi, con un governo che ha perso la sua ragion d’essere dal punto di vista politico anche se non parlamentare, è difficile dopo le dimissioni rassegnate ieri da Draghi (respinte dal Quirinale) non riconoscere che la realtà potrebbe portare verso una direzione diversa. Non la direzione auspicata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella – che ieri pomeriggio, ricevendo Draghi al Quirinale, ha invitato con fermezza il premier a continuare la sua azione misurando la fiducia in Parlamento – ma una direzione che coincide con un percorso diverso, con quello che diventa un esito spesso naturale quando le maggioranze di governo vengono infilate in un inceneritore al posto della monnezza (ops).
La direzione, neanche a dirlo, è quella delle elezioni, del voto leggermente anticipato, e per quanto si possa essere preoccupati dalla prospettiva di andare alle urne in uno scenario difficile ci sono anche solide ragioni per non drammatizzare e considerare un’elezione rapida come uno scenario non da brividi. Il primo motivo è legato alla differenza sostanziale che vi era tra l’estate in cui si è rischiato di andare al voto (2019, compilation a cura del Papeete) e quella di oggi: il Parlamento più disordinato della storia della Repubblica ha contribuito, grazie alla guida saggia di Mattarella, a portare l’Italia in una stagione diversa rispetto alla fase del populismo sfascista e l’Italia di oggi ha un numero sufficiente di anticorpi per affrontare le elezioni anche in una fase complicata. Li ha perché l’Italia del 2022, l’Italia post pandemica, post populista, immersa nelle grandi partite internazionali, è un’Italia che vive all’interno di una splendida cornice fatta di impegni, di vincoli, di contratti, che rendono in un certo senso inevitabile il percorso del futuro per chiunque governerà. Non c’è dubbio che la mossa di tagliare le gambe al governo fatta da Conte, che Romano Prodi con un sorriso amaro offerto al Foglio considera una perfetta “bertinottata”, è una mossa che avrebbe potuto suggerire Putin, per indebolire uno dei governi più attivi nel sostegno alla resistenza ucraina.
Ma è anche vero che la crisi nasce più per fattori interni che esterni e non lascia presagire nulla di fosco rispetto alla futura collocazione del paese: nel 2018 i partiti che vinsero le elezioni volevano avvicinarci alla Russia e alla Cina, oggi anche i partiti di opposizione non hanno dubbi rispetto a quali siano le giuste coordinate da seguire. E dunque, sì, accorciare la vita al governo è un problema e si capisce lo sforzo di Mattarella per evitarlo (mercoledì il premier sarà alle camere e i partiti di governo faranno di tutto per ricomporre la maggioranza: salvare Draghi, what ever it takes). Ma andare a votare non sarebbe la tragedia descritta. Possono cambiare i partiti al governo, ma non cambierà il percorso dell’Italia. Visti i tempi non è poco. Buona crisi.