il foglio del weekend

Dal Partito comunista al M5s, l'identità mobile della politica italiana

Francesco Cundari

Il travaglio di Giuseppe Conte per rifondare i 5 stelle. A scuola dalla sinistra, che dopo il Pci non ha smesso di chiedersi: ma noi, chi siamo?

Alla nascita del governo Draghi in molti lo avevano detto, e non come una battuta, che il problema sarebbero state le identità dei partiti. Eppure veniva un po’ da sorridere, arrivati al quarto anno di una legislatura in cui tutti avevano già governato con tutti, con l’eccezione di Fratelli d’Italia, sulla base di tutte le possibili piattaforme. Ma l’identità è mobile, come ogni cosa umana. E’ un pendolo, va avanti e indietro, e non sai mai esattamente dove si fermerà. 

Prendete i Cinque stelle. Quelli che volevano un referendum (incostituzionale) per uscire dalla moneta unica e chiedevano in piazza l’impeachment di Sergio Mattarella per aver loro impedito di mettere un No euro al ministero dell’Economia, da un giorno all’altro, sono diventati i più europeisti di tutti. Nati come il più antiscientifico dei movimenti, principali propalatori di tutte le peggiori bufale no vax in Italia (molto prima dei leghisti e di tutti gli altri), sono diventati i maggiori sostenitori di vaccini, lockdown e mascherine. Hanno cambiato idea – o perlomeno posizione – praticamente su tutto: politica estera e politica energetica, alleanze internazionali e alleanze elettorali. Sull’Unione europea e sulla Nato, sulla Russia, sul mondo. Si sono rimangiati praticamente tutte le proprie parole d’ordine e hanno allegramente governato con tutti quelli che fino a un minuto prima avevano definito il cancro del paese: chi avrebbe potuto mai immaginare che a pochi mesi dalla fine della legislatura si sarebbero impuntati sull’immondizia? 


D’altra parte, l’identità non è mai un dato acquisito, è sempre in evoluzione, è sempre questione di punti di vista. Vale per tutti gli esseri umani e vale anche per i grillini. E poi, per essere obiettivi, nulla li rappresenta meglio dei cumuli di spazzatura da cui per cinque anni hanno lasciato sommergere la capitale. E chissà se alla fine di questa triste storia qualcuno troverà il coraggio di dire che Roberto Gualtieri magari non sarà riuscito a liberare Roma dalla monnezza, ma almeno avrà liberato l’Italia da loro, con la sua idea del termovalorizzatore e con tutto quello che ne è seguito. 


In tempi di identità fluide e identity politics, bisogna riconoscere che nulla è più fluido della politica italiana, eppure, al tempo stesso, immutabile. Un sistema che non per niente si definisce “in transizione” da trent’anni filati, vale a dire dalla crisi del 1992-1993, il momento di passaggio più traumatico, con conseguente cambio di nome, dalla Prima alla Seconda Repubblica (ma c’è anche una corrente più radicale, rappresentata da fior di storici, secondo cui la “transizione italiana” comincia addirittura negli anni Settanta). La Prima Repubblica è stata promossa Seconda nel 1993, finché qualcuno non ha cominciato a dire – quasi subito, per la verità – che era uguale alla Prima, o forse era ancora la Prima, e qualcun altro ha cominciato a parlare della Terza, che per altri è cominciata nel 2018, o anche nel 2021, e per altri ancora è già finita. E allo stesso modo, a partire dagli anni Novanta, sono cambiati i nomi e le identità dei partiti.   


Il travaglio identitario più celebre, più autentico e più sofferto, sfociato nel primo coming out che ha aperto la strada agli altri e ha cambiato tutto, ovviamente, è stato quello del Partito comunista, raccontato così efficacemente da Nanni Moretti, nella finzione cinematografica di “Palombella rossa” (1989), dal punto di vista di un funzionario comunista, con quella fondamentale richiesta di riconoscimento (“e allora, perché tutta questa paura? Accettateci…”) e soprattutto con le sue contraddizioni irrisolvibili (“noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri, ma siamo diversi”). Un disagio e una scissione – dell’Io prima che del partito – raccontati anche meglio con il documentario dell’anno successivo, “La cosa”. Titolo che ai più giovani farà pensare oggi forse a un vecchio film dell’orrore, ma che a quel tempo campeggiava su tutti i giornali, da quando il segretario del Pci, Achille Occhetto, introducendo i lavori di un drammatico comitato centrale, aveva avuto la malaugurata idea di spiegare che “prima viene la cosa e poi il nome”.


Il dibattito che aveva animato – per l’ultima volta – le sezioni comuniste di tutta Italia, quello filmato da Moretti, era cominciato davvero in quel comitato centrale (preceduto come da prassi da una riunione della direzione, preceduta dalla segreteria): un comitato centrale durato cinque giorni, dal 20 al 24 novembre novembre del 1989. Una discussione raccontata giorno per giorno dall’Unità e poi raccolta e diffusa come libro allegato al giornale. In tre volumi. 


Tra i primi a intervenire c’era stato il vecchio Giancarlo Pajetta, contrario alla svolta, che sulla questione del nome si era detto d’accordo con il modo in cui Occhetto aveva impostato il problema in quella sede (e non in precedenza, dalle famose parole della Bolognina in poi), per aggiungere subito dopo: “Qualcuno aveva detto che non è un ‘prius’. Io mi ero permesso di osservare che bisognava tenere conto dei compagni, che non sanno il latino, che nelle sezioni, alla vigilia di una campagna elettorale, si vedranno costretti a discutere di questo”. Preoccupazioni di altri tempi.


Ma anche partiti di altri tempi, linguaggio di altri tempi, uomini di altri tempi. Pajetta, che aveva passato gran parte della giovinezza in galera, sotto il fascismo, nella sua ultima intervista prima di morire, nel settembre del 1990, avrebbe commentato così l’ipotesi di una scissione: “Sarebbe una tragedia. Non ho vissuto momenti peggiori di questo. Neanche in carcere ho sofferto tanto”.


Il dibattito, cominciato con la “provocazione” di Occhetto alla Bolognina il 12 novembre 1989, sarebbe andato avanti per quasi due anni, infinite riunioni, infinite polemiche e ben due congressi: uno per decidere il se, nel 1990, l’altro per decidere il come, nel 1991 (se e come aprire cioè la “fase costituente” del nuovo soggetto). 


Un ingenuo avrebbe potuto pensare che a questo punto, dopo quell’interminabile seduta di autoanalisi collettiva, la questione dell’identità sarebbe stata non dico risolta, figuriamoci, ma almeno accantonata per un po’. Macché. A ben vedere, la storia della sinistra italiana rappresenta forse la più grandiosa confutazione dell’utilità e della consistenza della psicoanalisi. Perché la verità è che è accaduto esattamente il contrario: da quel momento in poi, a sinistra, non si è praticamente discusso d’altro. Si è parlato quasi esclusivamente di identità, di nomi e di simboli, sebbene con pathos, ampiezza d’ispirazione e ricchezza di argomentazioni, inevitabilmente, decrescenti. E così il nuovo nome, Partito democratico della sinistra, frutto di cotanto sforzo, finirà per durare poco più di una legislatura, dal 1991 al 1998, quando Massimo D’Alema lancerà la proposta di una nuova fase costituente per la costruzione di un (ulteriore) nuovo soggetto, ovviamente unitario, che i giornali battezzeranno implacabilmente “la cosa due”. E i protagonisti, con poca fantasia, semplicemente “Democratici di sinistra”. 
Proprio così, dal punto di vista identitario e simbolico, tutte le successive “fasi costituenti” e gli “stati generali” solennemente convocati per rifondare la sinistra, naturalmente sempre aperti al meglio dell’intellettualità e della società civile progressista, hanno prodotto i seguenti cambiamenti: nel 1998 la scomparsa della “P” di “partito” dalla sigla “Pds”; nel 2007 la ricomparsa della “P” e la scomparsa della “sinistra”. Pds-Ds-Pd. Tralascio per pietà del lettore tutti i correlativi manifesti dei valori, carte dei princìpi e gli altri documenti fondamentali di cui traboccano le librerie dell’usato. Cominciavano tutti allo stesso modo: con le sfide del nuovo millennio di cui il nuovo soggetto avrebbe dovuto mostrarsi all’altezza. Millennio che nel frattempo scorreva inesorabilmente attorno alla loro retorica (mi sono sempre domandato se un giorno qualche giovane particolarmente ingenuo avrebbe pensato che si riferissero al tremila). E tutto questo per cosa? Per finire appesi alle dichiarazioni di Giuseppe Conte.


Dice adesso Carlo Calenda: “I democratici in tutta Europa si sono messi insieme e hanno combattuto populismo e sovranismo. Siamo l’unico paese in cui gli eredi delle grandi famiglie europee si sono sottomessi alla Lega e ai Cinque stelle”. Verrebbe voglia di dargli ragione, se uno poi non si fermasse un momento a pensare: d’accordo, ma quali eredi? 


In Italia, a differenza degli altri paesi europei, di quelle famiglie non ne è rimasta in piedi alcuna, non una ha conservato il nome che aveva sulla porta: non i socialisti, non i democristiani, non i liberali (i comunisti era naturale che non lo conservassero, e infatti non lo hanno conservato da nessuna parte, con buona pace di Pajetta).


Tra i partiti rappresentati in Parlamento, l’unico simbolo che è rimasto lo stesso è la fiamma del vecchio Movimento sociale, ripreso da Fratelli d’Italia, che secondo i sondaggi sarebbe oggi il primo partito. Ma è più corretto dire che si tratta del simbolo di Alleanza nazionale. Perché anche il Msi ebbe la sua Bolognina (o meglio il suo congresso di Rimini) a Fiuggi, nel 1995, in forme assai più rapide e confortevoli, ma risolse il dilemma continuità/discontinuità allo stesso modo del Pds: come i post-comunisti alla fine decisero di mettere una miniatura della falce e martello alla base del nuovo simbolo, la Quercia (miniatura rimossa e sostituita dalla rosa del socialismo europeo ai tempi della “cosa 2”, con scelta esteticamente e botanicamente discutibile), così fecero i post-fascisti con la fiamma.


A destra, d’altra parte, sono sempre stati più pratici, financo sbrigativi, su queste questioni. Silvio Berlusconi ha fondato Forza Italia praticamente da solo, ne ha annunciato lo scioglimento dal predellino di un’auto nel 2007 (con relativa fusione per incorporazione di Alleanza nazionale), quando lanciò il Pdl in risposta al Pd, prese uno stratosferico 37 per cento alle politiche del 2008, un insperato 21 a quelle del 2013 (dopo avere lasciato la guida del governo, sull’orlo del default, nel 2011) e pochi mesi dopo il voto, e svariate scissioni nel frattempo intervenute (prima quella di Gianfranco Fini nel 2010, poi quella di Giorgia Meloni nel 2012), decise che il nome nuovo non gli piaceva più, il vecchio “brand” funzionava meglio, e basta, ecco fatto, addio al Pdl, si torna a Forza Italia. Non stupisce che a nessun regista sia venuto in mente di girare un documentario sui travagli di un simile parto. Non foss’altro perché sarebbe durato pochissimo.
In perfetta coerenza con l’intera storia del suo movimento, il tentativo di rifondazione contiana dei Cinque stelle è stato dunque una curiosa via di mezzo tra i due modelli, che ha preso la sostanza dalla destra e le forme dalla sinistra, con una pletora di nuovi statuti, carte dei valori, codici etici, oltre a una congerie di nomine (sempre decise da lui) per incarichi e organismi di ogni genere, moltiplicando i posti al modo in cui di solito la cattiva politica fa con i consigli di amministrazioni delle aziende controllate. Ma discussioni vere, non dico un congresso, neanche l’ombra. La sua stessa elezione a presidente del Movimento 5 stelle, il 28 marzo di quest’anno, è avvenuta come noto al termine di una serrata competizione con se stesso, essendo l’unico candidato. E non è stata nemmeno una vittoria schiacciante, considerando l’affluenza (ha votato meno della metà degli aventi diritto): alla domanda se erano favorevoli all’elezione di Conte, pur in mancanza di qualsiasi alternativa, ben il 5 per cento ha infatti votato no.


Di fatto, è la massima e forse unica legittimazione politica che ha ricevuto, se si eccettua il casting davanti a Luigi Di Maio e Matteo Salvini per il ruolo da presidente del Consiglio (in cui perlomeno dovette vedersela con un rivale, Giulio Sapelli, che peraltro si mise fuori gioco da solo, raccontando tutto alla stampa un minuto dopo). Ciò nonostante è stato due volte presidente del Consiglio, con la destra e con la sinistra, e a lungo “fortissimo punto di riferimento” (qualunque cosa l’espressione significhi) dell’intero fronte progressista. Forse dunque il vero problema non è quale sia la sua vera identità, o quella del suo movimento, ammesso che ne abbiano una. Ma quale sia la nostra.

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