i protagonisti
Tic, timori e mezze sicurezze: i sei volti della crisi di governo
Draghi fra le pressioni e i fatti, Mattarella confida nel tempo che tutti i nodi scioglie, Letta spera nel miracolo. Conte è la pallina di un flipper, Salvini equilibrista per evitare un altro Papeete, Meloni sente puzza di bruciato
Sono i protagonisti della crisi. In costante movimento. Corrono – eccetto un’eccezione, quella del capo dello stato – in tante direzioni diverse fra di loro, che non sembrano per ora incontrarsi. Anzi. Eccoli, dunque: Mario Draghi, Sergio Mattarella, Giuseppe Conte, Enrico Letta, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Sono alleati quasi ex e istituzioni al bivio. Tutto passa da loro. Il futuro del governo, ma anche gli assetti della nuova legislatura in caso di voto anticipato.
Mario Draghi, la tuta protestante
Se ritira le sue dimissioni rischia di diventare come “loro”, uno che torna indietro, ma se non le ritira saranno “loro”, i partiti, i leader, che proveranno a dire: “Vedete, l’incosciente è lui! Se ne è andato. Ci ha lasciato nel momento peggiore”. Chi lo ha fatto cadere, il M5s, è capace perfino di questo orrore logico. Nessuno credeva che Mario Draghi si potesse dimettere da presidente del Consiglio. Dunque Draghi ha già vinto perché ha sconfitto il “contismo” che è la malattia nazionale, la mezza furbizia, il tentativo di insaccare tutto con la lingua, di sostenere il diritto e il rovescio nello stesso tempo. Draghi aveva detto che se il M5s non avesse votato la fiducia, il governo, l’unità, non ci sarebbe più stata. E’ stato conseguente, ha rassegnato le dimissioni, perché i “fatti sono fatti. Il resto è rumore”, ripete sempre ai suoi collaboratori. Il non voto è un fatto.
In queste ore, per capire se ci sono ancora i margini per farlo restare presidente, per capire cosa farà mercoledì (quando si presenterà in Parlamento) si sta interrogando pure il parroco di Draghi, a Città della Pieve, il quale spiega che “Draghi non è un uomo che fugge”. Vedete? In Italia è già “fuga” anziché la solidità, il carattere che dovrebbero avere gli uomini di stato. Chi sta vicino a Draghi ripete che “non vuole tornare indietro” e che per tornare indietro deve esserci il desiderio di farlo dei partiti “e sembra che non ci sia”. Dicono che se pur ci fosse, e pare che ci possa essere, una “remotissima” possibilità di rivedere la sua decisione, è necessario un cambio di scenario, “una richiesta plebiscitaria”. Il mondo che conta si è mobilitato e, in Italia, lo stanno facendo i sindaci che firmano appelli. Giovanni Toti, dice che firmerebbe qualsiasi cosa, se solo consentisse di farlo rimanere premier. Il ministro Renato Brunetta si getterebbe a terra. Le associazioni industriali lo stanno implorando. Draghi che non ha mai amato il sentimentalismo, le smancerie, “sono argomenti riservati cosa leggo, cosa penso, cosa mangio” ne fa una questione di governo, di azione che sarebbe paralizzata. Ecco come siamo arrivati al “momento Draghi” come pochi mesi fa eravamo arrivati al “momento Mattarella”. Significa tenere il fiato sospeso: “Cosa farà? Ci salverà”. E’ qualcosa che Draghi detesta. E’ l’idea che basti un uomo a fare, e tenere, un paese. Non vuole essere nulla di quello che vogliamo che sia. Non vuole essere un salvatore della patria, non vuole essere una riserva della repubblica. Rischia di lasciare per la ragione più stupida del mondo: “Qui non è più possibile lavorare”. Draghi è la tuta protestante.
Sergio Mattarella, l’orologio della Repubblica
E’ il quarzo della Repubblica, quel minerale che, secondo gli antichi greci, era “il ghiaccio che non si scioglieva”. Ma è anche il quarzo dell’orologio, l’uomo che indica il tempo della democrazia e che confida “nella pazienza del tempo”. Sergio Mattarella a Mario Draghi, che si presentava dimissionario (“credimi presidente, abbiamo fatto di tutto”) avrebbe spiegato che in politica ventiquattro ore sono più lunghe di un secolo e che “dobbiamo aspettare”. Fino a mercoledì, il giorno delle comunicazioni di Draghi alla Camere, si saranno formati governi già sformati, veicolate chimere, illustrate tutte le posizioni del possibile kamasutra di “unità nazionale”. Pure Mattarella aveva spiegato agli italiani che il bis è una scorciatoia, la soluzione di chi non vuole diventare adulto. Insieme al suo scudiero portavoce, Giovanni Grasso, aveva preparato gli scatoloni per “tornare serenamente alle nostre vite precedente”.
Respingendo le dimissioni di Draghi, Mattarella ha allungato la notte italiana proprio come quelle arabe che erano mille, quelle di Sharazad: “Raccontane ancora una” diceva il re. In queste ore il presidente è sconcertato dal M5s che convoca riunioni per decidere se convocare un’altra riunione. Se potesse parlare direbbe “le forze politiche ci stanno mettendo del loro per liberarsene anziché fare in modo di trattenerlo”. Si riferisce naturalmente a Draghi che resterà, comunque vada, il suo capolavoro insieme al capolavoro, e oggi finalmente si comprende, più grande: aver fatto in modo che degli sciagurati (lo dice il vecchio Gianni Cervetti) diventassero uomini di governo. E’ il papà a cui i partiti si rivolgono quando le combinano grosse, ma dicevano al Colle “a volte anche i papà non hanno soluzioni da tirare fuori dal cilindro”. Le elezioni anticipate, un governo senza Draghi per arrivare a fine legislatura (quasi impossibile) un governo per gli affari correnti, un governo Draghi senza M5s… sono tutti scenari difficilissimi anche perché “bisogna capire la posizione della Lega”. Quando i parlamentari hanno chiesto a Mattarella di restare lo hanno fatto con genuflessioni e preghiere, in continuità con la nostra ultima tradizione: “Salvaci, presidente”. Al Quirinale si registra che “non c’è salvezza per chi non la vuole”.
Giuseppe Conte, la pallina del flipper
E’ la biglia impazzita, ormai da giorni. Ma anche mister innesco. Incapace finora di sostenere una posizione netta per più di un quarto d’ora. Era l’Avvocato del popolo, adesso è osannato dai tassisti che tirano i petardi davanti a piazza Colonna: “Giuse’, caccia Draghi!”. Il capo del M5s sembra aver perso il tocco felpato e istituzionale che lo rese popolare fra gli italiani ai tempi della pandemia, anche se la passione per i vertici notturni, con il favore delle tenebre, gli è rimasta. Si è involuto. E’ passato, d’altronde, dal largo ombrello dei grand commis di Palazzo Chigi, a Paola Taverna e Riccardo Ricciardi, gli incendiari. Gli è rimasto vicino, questo sì, Rocco Casalino con il quale governa, si fa per dire, il M5s-Babilonia a colpi di veline (“per provare l’effetto che fa, amo’”) e repentine smentite. Conte ha subito da passante la scissione di Luigi Di Maio, convinto fino all’ultimo che il ministro degli Esteri si sarebbe portato dietro “al massimo” non più di venti parlamentari. Invece sono sessantadue, per ora. Da giorni è chiuso in riunioni surreali – il Consiglio nazionale del M5s – che non decidono mai nulla, ma finiscono solo a improperi e riconvocazioni. L’altra sera è rimasto chiuso anche fuori casa, l’ex premier per incidente della storia. Di sicuro vede il voto anticipato, ma poi ci ripensa perché controlla un terzo dei reduci. Sognava il ritorno a Palazzo Chigi, rischia di ritrovarsi alle prossime elezioni con un partitino modello Salò, ma rosso. Sempre che Alessandro Di Battista non torni dalla Russia con intenzioni belligeranti. Pare che Beppe Grillo in queste ore, chiusosi in un silenzio molto anomalo, scuota la testa. Ha a che fare con l’uomo per il quale “le urgenze non richiedono risposte urgenti”.
Enrico Letta, l’aruspice
O parlava perché sapeva o sapeva e dunque parlava. Quando Enrico Letta ha iniziato a dire: “Attenti, questo è l’ultimo governo della legislatura” si racconta che lo facesse per avvisare il M5s che era già diventato “Potere tassinaro”, il “Plebe party”. Letta che con Draghi ci ragiona, e davvero, non come tanti altri che non parlandoci ci soffrono, dicono che avesse capito che il vero potere di Draghi fosse il pensiero aristotelico: “Azione = conseguenza”. Da segretario del Pd dopo pochi mesi ha sposato la linea del premier che “è il meglio che potevamo desiderare”, “la nostra mano della Pieve”. Letta, che è tornato da Parigi e che ha ereditato il Pd più scalcagnato di sempre, un partito che definiva Conte il “Messi del progressismo” (Berlinguer, perdonali, sapevano quello che facevano) ha finora il merito di preferire il sole al buio: non trama. Si sa infatti che, in queste ore, Dario Franceschini sta sperimentando l’agibilità di un altro governo Draghi senza Draghi. Letta ha invece già preparato la sua macchina elettorale, che non è per nulla gioiosa, ma modello Siena, “metro per metro”, “voglio gente che non sbraca”. Confida ancora nel miracolo della ragione o forse il vero miracolo è che Letta ragiona. Il M5s oggi lo rappresenta Luigi Di Maio, e quindi per Letta, il necessario è ricostruire un “governo di unità nazionale” che può nascere sul M5s che si dis-unisce. Alle elezioni anticipate, che Letta non auspica ma che Letta non demonizza, e che potrebbero portare alla ribalta “la generazione Maneskin dem”, tanti giovani e combattivi amministratori, il Pd sarà costretto a guardare al centro della sinistra. Parte sfavorito ma non è forse di sinistra, partire da dietro, essere il Camerun della democrazia, la squadra di calcio che sorprende? Il M5s, la casalinatja di Conte pensa che “meno siamo e meglio stiamo”. Senza il M5s, è Letta che può stare meglio con meno. In questo paese stordito è lui il vice Draghi. E’ l’italiano più affidabile dopo di lui che vorrebbe continuare a governare insieme a lui.
Matteo Salvini, l’equilibrista
Un altro Papeete no, non potrebbe sostenerlo. E però il capo della Lega è schiacciato fra l’ala dei governatori iperdraghiani a favore della stabilità e Giorgia Meloni che lo richiama all’ordine, in qualità di subalterno, e dunque al voto anticipato. Come ai tempi poco gloriosi dell’elezione del capo dello stato, Salvini è riuscito a cambiare linea senza quasi accorgersene. O di sicuro senza spiegazioni. E’ passato infatti da “se non ci sono i 5 Stelle si va al al voto” a “avanti con Draghi senza 5 Stelle”. Dietro a questa piroetta, pare ci sia stata la solita compagnia che gli mette giudizio quando il Matteo sembra perdere la trebisonda: da Giancarlo Giorgetti a Luca Zaia, passando per Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana. Anche il Cav. ci ha messo del suo per far virare Salvini. Tanto che la nota congiunta Lega-Forza Italia di venerdì scorso ha avuto una gestazione lunga, complicata e tormentata. “Farò il bene degli italiani”, risponde Salvini che sarebbe il capo del partito di maggioranza relativa. Un ottimo modo per non dire nulla. E aspettare. Con il fiato sul collo di Meloni, pronta a grattare gli ultimi consensi all’ormai ex Capitano che in tre anni ha perso il 20 per cento, secondo i sondaggi. L’ex ministro dell’Interno si è scoperto pacifista durante lo scoppio della guerra in Ucraina, adesso sembra neutrale in questa partita. Risucchiato dalla corrente. Non sa che pesci prendere.
Giorgia Meloni non accetta scherzi
Vuole il voto, e subito. Si è scocciata dell’ambiguità di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Rifiuta i vertici a Villa Certosa perché pensa che rischino di essere come il Consiglio nazionale del M5s (con l’aggiunta di gustose tartine): infruttuosi. Giorgia Meloni sente puzza di bruciato. A Roma, tra i lotti della amata Garbatella, direbbero: “Stavolta nun me rifregate”. La capa di Fratelli d’Italia accarezza la leadership del centrodestra, consapevole che gli alleati faranno di tutto per non mandarla a Palazzo Chigi. I sondaggi la premiano, il Cav. e Salvini non vogliono farla salire sul predellino. Se non si dovesse votare poco male alla fine: Meloni avrà altre formidabili armi per la propaganda elettorale, a discapito di chi è rimasto al governo. Anche se “con quei due” rischia di rompere per sempre. Meloni e alla sua generazione Atreju piaceva da ragazzi “La compagnia dell’anello”, gruppo neoprogressive di destra, ma non hanno l’anello al naso. “Attenzione”, va ripetendo la patriota. Può allargare il suo consenso ma anche restare ingabbiate nella parte di “signora opposizione”.