(Foto di Lapresse) 

E' il draghicidio, bellezza

Il manifesto di Draghi: lo specchio delle irresponsabilità populiste

Claudio Cerasa

La tempesta perfetta, come ha scritto Gentiloni, c'è, ed è stata causata da tre partiti politici: il M5s, la Lega e Forza Italia. Ma sul voto nessun dramma

Finisce in un modo pazzo, scriteriato e rocambolesco il governo guidato da Mario Draghi, in una giornata a metà fra la tragedia strategica, la farsa politica e il Papeete parlamentare. Finisce con una sfiducia che nessuno dei sabotatori del governo ha il coraggio di esplicitare (meglio uscire dall’Aula). Finisce con una bocciatura politica del governo che nessun leader di partito ha il coraggio di intestarsi (il senatore Matteo Salvini ha scelto di non essere lui a motivare in Aula la fine del sostegno al governo). E finisce al termine di una giornata in cui Draghi si è ritrovato di fronte a una maggioranza di ribelli che non ha fatto altro che ripetere lo stesso film girato durante le ore cruciali della partita quirinalizia di gennaio: lo sgambetto, la spallata, lo scherzetto o se volete semplicemente il draghicidio. Finisce così, il governo Draghi. Finisce dopo 552 giorni di maggioranza anomala, ma tutto sommato ben funzionate. Finisce al termine di un percorso di successo nel quale il presidente del Consiglio ha avuto la forza di indirizzare la nave dell’Italia verso una direzione nuova, fatta di riformismo pragmatico, europeismo convinto, atlantismo sincero, anti populismo esplicito. Finisce così, l’esperienza di Draghi, che ha aperto una parentesi nella politica italiana che grazie ai molti e benedetti vincoli europei sottoscritti in questi mesi dall’Italia attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza difficilmente si andrà a chiudere qualunque sarà il percorso che l’Italia andrà a imboccare nei prossimi mesi. E finisce in un giorno non come gli altri, in cui l’ex governatore della Bce, durante il suo tosto, duro e per certi versi sfacciato discorso pronunciato al Senato non ha fatto altro che mostrare con schiettezza al Parlamento l’inevitabile rivoluzione con cui dovrà fare i conti l’Italia negli anni a venire: il passaggio dalla stagione dei pieni poteri a quella dei pieni doveri.

 

La sfiducia politica consegnata ieri a Mario Draghi è arrivata al termine di una giornata speciale in cui l’ex presidente del Consiglio ha squadernato nel suo discorso tutti i tabù che una classe dirigente con la testa sulla spalle non può più permettersi di affrontare nascondendo la polvere sotto il tappeto. Ha parlato di tutto, Draghi. Ha ricordato che ribellarsi alla concorrenza significa non fare passi per promuovere la crescita, per ridurre le rendite, per favorire investimenti e occupazione. Ha ricordato che quando un governo si trova impegnato nel sostegno a un paese sotto attacco di un invasore indebolire il sostegno a quel governo significa scegliere di fiaccare la resistenza contro chi combatte le democrazie liberali. Ha ricordato i danni prodotti del populismo energetico, mettendo in luce le contraddizioni dei partiti che chiedono una maggiore indipendenza energetica per l’Italia ma poi sono incapaci di spingere le proprie amministrazioni locali a combattere la politica del Nimby (vedi il rigassificatore di Piombino). Ha ricordato quanto siano irresponsabili le forze politiche che hanno iniziato a mettere sul tavolo ulteriori richieste di indebitamento proprio negli stessi mesi in cui si faceva maggiore il bisogno di attenzione alla sostenibilità del debito. Passare dalla stagione dei pieni poteri a quella dei pieni doveri non significa fare qualsiasi cosa per evitare di andare al voto – andare alle urne presto, prestissimo è un problema per tutti gli impegni che ha l'Italia sul fronte del Pnrr, per molti investimenti in essere che probabilmente andranno a monte, e ha ragione il commissario all’Economia Paolo Gentiloni quando dice che l’Italia potrebbe trovarsi di fronte a una tempesta perfetta, specie se lo scudo antispread della Bce che verrà annunciato oggi dal governatore Christine Lagarde dovesse essere legato al raggiungimento puntuale degli obiettivi del Pnrr che con un governo sfiduciato difficilmente potranno essere rispettati, ma non è un dramma. 

 

Significa altro. Significa essere consapevoli delle responsabilità di fronte alle quali si trova oggi un paese desideroso di archiviare la stagione tossica del populismo chiodato. E significa essere consapevoli di cosa significhi entrare in modalità “giorno della marmotta” quando si tratta scegliere da che parte stare sui grandi temi: difesa dell’occidente, solidarietà europea, guerra contro i nemici delle società aperte, lotta contro ogni pulsione nazionalista. La crisi del governo Draghi non nasce all’improvviso, ma nasce da una doppia dinamica che si è andata a produrre nelle due coalizioni presenti all’interno dell’esecutivo. Da una parte, nasce dall’incapacità strutturale del M5s, e del suo leader, Giuseppe Conte, di saper trovare una strategia diversa dal sabotare il governo per provare a gestire il crollo del suo consenso. Dall’altra parte, nasce dall’incapacità strutturale del leader della Lega, Matteo Salvini, di saper fare quello che una destra moderna avrebbe potuto fare in modo quasi naturale: trasformare cioè la propria appartenenza al governo Draghi in un’occasione per cancellare in modo definitivo la stagione dei pieni poteri, del populismo, del Papeete, e utilizzare la stagione dei pieni doveri, incarnata magnificamente dal governo Draghi, per provare lentamente a cambiare pelle e per tentare di fare quello che in questi giorni avevano chiesto alla Lega numerosi rappresentanti del ceto produttivo italiano: meno populismo, più pragmatismo, meno movimento di lotta, più partito di governo. La Lega, invece, trascinandosi con sé ciò che resta del partito del Cav., ha scelto di tornare alle origini. Ha scelto di regalare l’agenda Draghi al Pd – che speriamo prenda atto del fatto che la sua incompatibilità con il M5s non è un tema legato alla forma ma è legato alla sostanza. E ha scelto di farlo in un momento delicato, strategico. Oggi la Bce, per la prima volta da dieci anni a questa parte, alzerà i tassi, e per un paese con una crescita bassa, un debito alto, una stabilità politica precaria potrebbe essere non una passeggiata. Una tempesta perfetta causata da tre partiti politici, il M5s, la Lega e Forza Italia, che hanno scelto di rispondere alla stagione dei pieni doveri con la proiezione del giorno della marmotta. E’ il draghicidio, bellezza. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.