La crisi e il “no” a Draghi: storia dei due alleati-non alleati Salvini e Meloni
Antagonisti e protagonisti di fasi sempre uguali e sempre diverse. Solo che i numeri, prima amici di lui, sono ora amici di lei, complici le ultime amministrative che hanno segnato il sorpasso di FdI sulla Lega
"Ripetuti contatti tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni”. Arriva nel pomeriggio di ieri la conferma dei segnali che si sono susseguiti fin dal mattino: la crisi innescata dai Cinque stelle arriva sul piatto del centrodestra. Dove ci sono di nuovo – lungo l’elastico che li fa tendere e riavvicinare senza mai spezzarsi del tutto – i due alleati-non alleati e rispettivi leader di Fratelli d’Italia e della Lega, antagonisti e protagonisti di fasi sempre uguali e sempre diverse.
Hanno cominciato a contrapporsi sottotraccia, pur senza essere in eserciti diversi, Salvini e Meloni, anche prima del 2018, ma è dal 2018 che li si vede lì, perennemente in campo, nella condizione equilibrista del mantenersi distanti, lui al governo e lei all’opposizione, ma anche no, vista la comunanza del verbo sovranista e gli accordi elettorali sui territori. Solo che i numeri, prima amici di lui, sono ora amici di lei, complici le ultime amministrative che hanno segnato il sorpasso di FdI sulla Lega e la mutazione anche lessicale di Giorgia Meloni, che un anno fa si è voluta avvicinare al pubblico anche elettorale con un libro autobiografico (“Io sono Giorgia”, ed. Rizzoli, la cui dichiarazione d’intenti parla da sola: “Ho visto troppa gente parlare di me e delle mie idee per non rendermi conto di quanto io e la mia vita siamo in realtà distanti dal racconto che se ne fa”), per poi farsi avanguardista di se stessa, qualche mese fa, con una convention di partito aperta al mondo delle imprese, agli intellettuali e agli ospiti esterni, in quel di Milano (con invito al sindaco di centrosinistra Beppe Sala), al grido di “trasformiamo un’epoca infame nel nuovo Risorgimento”.
Intanto lui, Salvini, mandando la Lega al governo due volte con Giuseppe Conte e una con Mario Draghi, era entrato nella dimensione scomoda dell’avere sempre e comunque negli occhi Meloni, spettro e monito del “se non fossimo qui”, e rilanciava un mese dopo da Roma, con un’altra convention in cui in qualche modo sfidava al rialzo la gemella diversa a suon di “No alla Svezia e alla Finlandia nella Nato”, con progressivo inasprimento di toni da lì in poi, dentro e fuori dai palazzi, come in un riavvicinamento a ritroso a quel giorno del Papeete che ieri, durante le ore più tese, veniva evocato fino a quella foto: Salvini con alcuni senatori mentre beve Coca Cola alla buvette, poco prima di ribadire il “no”.
E finisce la storia della Lega di governo allargato ma non finisce quella di un Salvini che sempre a Meloni deve rapportarsi, e sempre con lei misurarsi, in una tensione che nei giorni delle trattative poteva sembrare persino foriera paradossalmente di ritrovata stabilità, fino a ieri, giorno in cui lo schema di Giuseppe Conte che innesca la crisi si è ribaltato in quello del centrodestra che la raccoglie, solo che oltre la porta per Salvini c’è di nuovo lei: Giorgia, la donna che ora ha i numeri e può rivendicarli in vista di una eventuale premiership, mentre lui, per poter competere, dovrebbe correre a federarsi con Forza Italia, rischiando comunque di indebolire il profilo sovranista che l’alleata-non alleata, dall’opposizione, ha potuto far lievitare al contrario di lui – che ieri, nel momento della verità, faceva parlare il senatore Stefano Candiani e non se stesso.
E al mattino, altro segnale, dopo il discorso di Draghi, alla parola “tassisti”, il disagio sui volti leghisti diveniva palpabile, tanto che, alla considerazione di un osservatore, alla buvette — “ma voi non avete applaudito, non vi siete mai alzati” — alcuni senatori leghisti rispondevano “ci siamo alzati per venire qui”. Sorridevano invece i meloniani, mentre davano torto al premier sul suo discorso anche per far cantare le sirene per il Salvini che nel pomeriggio diceva la frase rivelatrice: “Il centrodestra è unito per il bene del paese”. Ritorno alle origini? Non-magnifica ossessione? Fatto sta che lei, Giorgia, qualche tempo fa aveva detto (perché Matteo intendesse): “Si va al voto perché questo Parlamento che mantiene in piedi il governo non rappresenta l’Italia”. Detto e fatto (da lui, che prima della presa di posizione ufficiale ieri già sussurrava ai suoi: “Draghi si va a dimettere”). E lei, a distanza: "La storia ci ha dato ragione".