fare le riforme, ma non troppo
Il terrore della responsabilità politica che ha generato lo sciacquone
Dalla riforma costituzionale alla nuova legge elettorale proporzionale: un Parlamento che crolla pur di non prendere decisioni
Viviamo mollemente dondolati sull’ala del turbine deficiente, per adattare alle cronache recenti due celebri versi di Baudelaire, che aveva parlato però di un tourbillon intelligent. L’ala del turbine deficiente, fondamento della nostra locale teoria del caos, è quella il cui battito inavvertito può scatenare una tempesta perfetta che ha lo scroscio fragoroso di uno sciacquone. La metafora di Letta – il colpo di pistola di Sarajevo – è calzante solo per metà, la metà delle conseguenze inintenzionali, ma omette l’altra metà, ossia che Gavrilo Princip, se anche non poteva immaginare la valanga che avrebbe messo in moto, aveva comunque sufficiente contezza di ciò che stava facendo, quel tanto da partecipare a una cospirazione organizzata con degli obiettivi politici precisi. Qui l’unica Mano Nera che qualcuno intravede è quella russa, ma non c’è neppure bisogno di ricostruire catene logico-strategiche dirette – che presupporrebbero l’intelligenza del turbine – quando è evidente a tutti salvo ai prosciuttofoderati e ai ciechi deliberati che da più di dieci anni il M5s fa il lavoro sporco per Mosca senza neppure bisogno di un ingaggio formale.
Più della pistola che abbatté l’arciduca, insomma, mi viene in mente il pugnale che in certi riti sacrificali dell’antichità veniva passato di mano in mano perché nessuno fosse imputabile di aver versato il sangue dell’animale sgozzato, e che infine era maledetto e gettato in mare (uno scaricapugnale che è la matrice antropologica profonda dello scaricabarile). Non si è capito cosa volesse esattamente Conte, in settimane di dichiarazioni schizoidi, atti mancati, vaniloqui da paglietta e iniziative autocontraddittorie indecifrabili come sintomi nevrotici; ma qualunque cosa volesse ottenere, oggi lui e i suoi sostengono candidamente di non averla né intrapresa né voluta. E’ uno spettacolo abbastanza ripugnante. Lo stesso vale per gli altri, i più scaltri e meno inetti pugnalatori di Draghi sul fianco destro, che dopo aver respinto in Aula il richiamo alla responsabilità del presidente del Consiglio si sono defilati anche dalla responsabilità di averlo fatto cadere. Tutti innocenti, insomma.
Questo dovrebbe portarci a riflettere su una costante della nostra vita politica e forse in generale della nostra vita associata: chiunque tenti di importare in Italia un minimo di accountability da democrazia occidentale matura finisce sbranato, per il metodo prima ancora che per il merito. Il tratto comune dei nostri ceti ipoteticamente dirigenti è il terrore della responsabilità, della congiunzione consapevole tra un’intenzione, un’azione e delle conseguenze.
E’ la colpa che Renzi scontò nel 2016, ed è la colpa che Draghi sconta oggi, e che forse aiuta a spiegare perché sia stato proprio quel discorso franco, troppo franco al Senato a capovolgere le sue sorti politiche: ha chiesto ai partiti, semplicemente, di metterci la faccia, senza lasciar loro le consuete vie di fuga. Salvini, per tutta risposta, è letteralmente fuggito. Il momento della verità inequivocabile che Draghi sperava di inscenare a beneficio degli italiani sul palco deputato, il Parlamento, è stato dolosamente sabotato e reso opaco e chiassoso, per via di una resistenza ben più profonda della fedeltà ai tassisti o ai balneari: il tabù della responsabilità. Non so se la teoria dei giochi offra una definizione per questa specie di patto di deterrenza tra irresponsabili, questo dilemma del prigioniero in cui conviene a entrambe le parti defilarsi, ma è evidente che molte cose, in Italia, si possono fare solo senza aver l’aria di farle fino in fondo, e lasciando socchiusa l’uscita di sicurezza.
Un esempio perfetto è la riforma costituzionale: quando si trattava di assumersi in forma solenne una responsabilità storica, tutti si sono più o meno dati alla macchia, alcuni addirittura per timore del combinato disposto con la legge elettorale. Questo non ha impedito alle stesse persone, dopo anni o decenni di feticismo costituzionale, di votare in sordina una riforma teppistica – il taglio a vanvera dei parlamentari – che combinata all’attuale legge elettorale promette davvero sfracelli; ma non pagano pegno, perché si erano predisposti una scialuppa di salvataggio raccontando che avevano votato sì solo perché c’era un saldissimo patto politico fatto di correttivi, proporzionale, ecc. Ovviamente non si è visto nulla di tutto questo, e ciascuno può darne la colpa a qualcun altro. Così l’ala del turbine deficiente ha potuto agire indisturbata con il suo molle dondolìo, producendo un ulteriore vortice nel maelstrom di ceramica in cui ci andremo a tuffare il 25 settembre, e che merita di essere chiamato lo sciacquone perfetto.