Democrazia e “formula politica”
L’“alleanza incerta” fra potere e rappresentanza e lo stato dell’arte delle classi politiche negli studi di Gaetano Mosca. La ricetta ancora attuale affinché élite e governati non cadano nella trappola delle superstizioni
Nel 1966 Norberto Bobbio riuniva, in un’antologia intitolata “La classe politica. Gaetano Mosca”, nove capitoli dell’opera “Elementi di scienza politica”, cui Mosca non aveva mai smesso di lavorare dalla prima edizione del 1896 a quella del 1923, fondamentale perché arricchita di una seconda parte inedita, sino alla terza e ultima del 1939, due anni prima della morte. Dei sette capitoli omessi rispetto all’edizione finale, Bobbio forniva un rapido riassunto. L’antologia conobbe una diffusione larga tra docenti e studenti di scienza della politica, ossia della disciplina accademica che proprio in quel torno di tempo incominciava una rapida scalata nelle università italiane. E, sin dal titolo, venne ad annodare ancora più strettamente la rilevanza di Mosca nella storia del pensiero politico con quella che tuttora continua a essere ritenuta la sua principale “scoperta”: tra i più formidabili effetti delle “tendenze psicologiche costanti, che determinano l’azione delle masse umane”, vi è certamente la realtà perenne che pochi comandano a molti, ai più. Senza una classe politica, senza una minoranza che detenga ed eserciti il potere, nessuna organizzazione politica riesce a nascere e a durare.
La ripubblicazione degli “Elementi di scienza politica”, aperta e presentata da alcune pagine che Piero Gobetti dedicava nel 1924 a Mosca, prima sull’Ora e poi sulla Rivoluzione liberale sotto il titolo “Un conservatore galantuomo”, viene ora offerta dai sempre eleganti tipi di Nino Aragno Editore. Quasi un invito, verrebbe da dire, a domandarsi quale sia lo stato odierno delle classi politiche. E anche a considerare, nel rispondere alla domanda, se alcune delle cautele o diffidenze apertamente manifestate da Bobbio nei confronti della teoria politica di Mosca già non fossero il segno eloquente della difficoltà di far emergere le cause vere degli affanni pesanti e dei mali sottili di cui sempre più soffrono, dopo averli a lungo trascurati o erroneamente diagnosticati, pressoché tutte le democrazie esistenti.
Dalle caratteristiche di una classe politica dipende la qualità della vita feriale dei molti che prestano obbedienza, perché convinti o perché totalmente costretti, alle decisioni e non di rado alle volontà opache o irragionevoli di pochi. In gran parte dipendono anche – come spiegherà convincentemente Arnold J. Toynbee, distinguendo fra “minoranze dominanti” e “minoranze creative” – l’ascesa e il declino rapido o lento di qualsiasi civiltà. E in queste caratteristiche, che pur si conformano alle modalità storicamente necessarie o più spedite per acquisire, preservare e gestire quello che è o si pensa che sia il potere effettuale, ogni volta si combinano, pur con proporzione variabile, le virtù e i vizi ordinari o smodati tipici di ogni essere umano.
Nel corso del Novecento e della sua seconda parte soprattutto, la “classe speciale”, la “sparuta minoranza”, come Mosca già la qualificava nell’opera giovanile “Sulla teorica dei governi e sul governo rappresentativo”, si è inopinatamente allargata. Al punto che sempre più indispensabile (ma non sempre produttivo) è lo sforzo di individuare, dentro la composizione vischiosa delle classi politiche odierne, quali siano i singoli o le ristrette équipe che davvero esercitano il potere in una qualche sua porzione effettiva.
Perché in certe epoche storiche le classi politiche tendano quasi inesorabilmente ad ampliarsi e al tempo stesso a stratificarsi, Gaetano Mosca lo aveva ben compreso e documentato. Non poteva presagire, però, che la dilatazione numerica di assemblee rappresentative e di rappresentanti-eletti sarebbe diventata la risposta meno insoddisfacente o evasiva alle richieste di chi intendeva “partecipare” al gioco politico (o, quantomeno, non sentirsene ai margini o totalmente escluso), fornendo al tempo stesso la giustificazione più corrente della crescente ubiquità e invasività della politica.
Nemmeno sarebbe stato facile immaginare con quanta rapidità erano destinati a diventare labili i confini, e incerto il peso reale dei rispettivi poteri, tra la classe politica e la frotta crescente di coloro che – manager pubblici, tecnici del denaro, comunicatori – sarebbero da raggruppare, come suggeriva Gianfranco Miglio proprio applicando alcune intuizioni di Mosca, dentro la categoria degli “aiutanti” o all’interno della ben delimitata zona del “sotto-comando”. Uno degli aspetti meno studiati delle forme di cooptazione nelle classi politiche attuali (e di accesso a quei settori della società e dell’economia in cui maggiore si manifesta il patronato della politica) è il consistente numero di coloro che per svariati motivi o interessi, mirano a esserne parte. Con l’inaggirabile effetto che, crescendo la sproporzione tra il numero degli aspiranti e le posizioni disponibili, cresce anche una competizione, o una lotta, sempre più serrata e sregolata.
Nelle frasi spesso citate che, in apertura del secondo capitolo degli “Elementi di scienza politica”, definiscono la “classe dei governanti” e la “classe dei governati”, alcune essenziali precisazioni di Mosca sono sempre rimaste non casualmente nell’ombra. La classe dei pochi che detengono il potere, per Mosca, “gode i vantaggi che a esso sono uniti”. L’estesissima classe “diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento”, a chi la governa “fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla vitalità dell’organismo politico sono necessari”.
Il cortocircuito tra “vantaggi” e “privilegi” è di solito incendiario. Tanto più lo è, quanto più coloro che si trovano o ritengono di essere nella condizione di dover coattivamente coprire con le proprie risorse private la voragine dei costi della politica, non hanno più “formule politiche” in cui credere non solo con fede piena o con qualche ragionevole dubbio, ma nemmeno con interessata ipocrisia. Senza una qualche “formula politica” più o meno persuasiva, perentoria oppure addolcita, la politica non può che rivelarsi quella che in parte, e di necessità, è e continuerà a essere: ossia la regolata competizione, o la battaglia spietata, tra posizioni personali di potere. Senza una “formula politica” messa al riparo (per quanto umanamente possibile) dall’usura della retorica più banalizzante e dagli svilimenti delle promesse disattese o in ogni occasione differite, anche le istituzioni più antiche e solide finiscono con l’apparire un mero strumento maneggiabile secondo il tornaconto di chi temporaneamente dispone del potere.
Il terzo capitolo, in cui Mosca introduce la nozione di “formula politica” ed esamina la variabilità storica delle “giustificazioni” del potere, è tuttora pieno di suggerimenti per il nostro presente. Certo, classi politiche e capi politici vengono sempre più “misurati”, come nel letto di ferro di Procuste, da una rappresentatività vera, presunta o immaginaria, oltre che ormai volubile e alquanto fugace. D’altro canto, è difficile non condividere il giudizio di Hanna F. Pitkin, studiosa autorevolissima della rappresentanza politica, quando conclude le sue estese indagini affermando che tra rappresentanza e democrazia vige ormai un’“alleanza incerta”, non di rado reciprocamente sospettosa. E la democrazia – non meno, e forse assai di più, della rappresentanza e delle istituzioni rappresentative-elettive – patisce la calante capacità attrattiva della “formula politica”, da cui è legittimata e sostenuta da oltre due secoli.
Gaetano Mosca, respingendo l’idea che “le varie formule politiche siano volgari ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l’obbedienza delle masse”, non ha esitazioni nel soppesare anche l’ipotesi, delineata con crudezza da Herbert Spencer, che “il diritto divino delle assemblee elette a suffragio popolare è la grande superstizione del secolo presente”, alla stessa stregua in cui lo fu il diritto divino dei re nei secoli passati. Se ne tiene però a una qualche distanza. E’ infatti necessario, osserva Mosca, considerare “se, senza qualcuna di queste grandi superstizioni, una società si possa reggere; se una illusione generale non sia cioè una forza sociale, che serve potentemente a cementare l’unità e l’organizzazione politica di un popolo e di un’intera civiltà”.
Nell’introduzione all’antologia da lui curata, Bobbio sceglie di non insistere sugli aspetti dell’opera che, già in quegli anni, potevano risultare diffusamente anacronistici o facilmente contestabili: per esempio, l’ampia analisi dedicata da Mosca nel primo capitolo – “Il metodo nella scienza politica” – al problema della possibile influenza dell’ambiente fisico-climatico sul tipo di organizzazione politica (e sull’attitudine alla politica), o la questione del “progresso politico ed il miglioramento fisico della razze umane”. A Bobbio maggiormente interessava mettere in luce le ragioni per cui, secondo Mosca, la “teoria democratica” era da ricomprendere tra le “dottrine politiche distorte, che mirano soltanto a giustificare in ispregio ai risultati della ricerca storica alcuni regimi a scapito di altri”. Pertanto, puntigliosamente elencava quei giudizi di valore e convincimenti ormai travolti o contraddetti dalla storia successiva: la critica del suffragio universale, l’idea del voto come “funzione” e non come “diritto”, l’avversione alla democrazia non solo “sociale”, ma persino “formale” e “sostanziale”. Per Gaetano Mosca, epigono del positivismo, “la scienza politica doveva insegnare a evitare i due estremi dell’inerzia e del mutamento troppo brusco”, favorendo le lente trasformazioni e impedendo quelle crisi violente che normalmente accelerano il corrompimento di una società o di una civiltà.
Mentre Piero Gobetti aveva cercato in Mosca i risultati di “una specie di ascesi dal troppo facile e dal troppo umano”, “i lineamenti di una franca psicologia conservatrice” nella quale era facile riconoscere “la sua grande ammirazione per il Manzoni”, a Norberto Bobbio il conservatorismo “tenace, intransigente e incorreggibile” dello studioso palermitano sembra manifestare “anzitutto un non celato, anzi apertamente professato, pessimismo antropologico che gli faceva vedere nell’uomo un impasto di bene e di male con una prevalenza del male sul bene e lo metteva in istato di mal repressa irritazione contro le teorie illuministiche […] che credevano nella bontà naturale dell’uomo”.
Forse bisogna allora chiedersi se, nelle condizioni odierne della politica e delle classi politiche, una pur controllata dose di pessimismo antropologico non costituisca l’antidoto meno inefficace nei confronti dei tanti conformismi culturali e sociali che, come piccole superstizioni, propongono plurime e talvolta contraddittorie “verità” in cui credere simultaneamente o in rapida successione. D’altronde, all’annebbiarsi di un’antropologia realistica della politica, inevitabilmente si finisce con l’assolutizzare tutto ciò che è relativo al presente, pensando ingenuamente che quest’ultimo – per i medesimi motivi per cui il passato, secondo Bobbio, riscuote l’ammirazione di ogni spirito conservatore – non possa che essere “ormai consolidato, certificato, immodificabile”. Sono davvero poche le aspettative generali, o anche le illusioni, che riescono oggi a “cementare” la società. Quand’anche possano accompagnare e un po’ alleviare l’agonia delle fedi politiche, le superstizioni – grandi o meno grandi che siano – quasi mai sopravvivono a lungo alla morte di quest’ultime. Tantomeno ne prendono il posto, surrogando malamente eresie, scismi e abiure con l’invidia e la gelosia sociale o con l’ostracismo del silenzio.
Insufficienti, o meno mediocri di quanto si ritenga, o magari anche adeguate in qualche leader, le caratteristiche e qualità delle lasche classi politiche odierne sono sempre più messe alla prova (e non di rado alla gogna) da simili superstizioni. Le quali – simili a tic inavvertiti e incontrollabili, anche quando abbiano l’apparenza di diffuse e consolidate rappresentazioni e opinioni collettive – servono soprattutto a esorcizzare o dissimulare. Raramente, e solo in superficie, ricompongono ciò che è eccessivamente diviso o cercano di non generare frammentazioni ulteriori.
Per le attuali classi politiche, i rischi maggiori vengono proprio da una società che, indifferente o refrattaria alle fedi e “formule”, si lascia irretire da non innocue superstizioni. E che, per tenere lontano i fantasmi di una dipendenza ormai pressoché totale dalla politica, deve illudersi di essere sempre migliore di chi è al potere, ostentando la propria presunzione di essere capace, da sola, di affrancare la politica dal suo destino di attività di second’ordine.