Grazie Draghi, nostro Bertolt Brecht
Ha sfidato il lessico dei talk-show e ha introdotto il rito purificatore del silenzio prima dell’annuncio, della quiete prima della tempesta, o viceversa, della tempesta per arrivare alla quiete. Cosa resterà di Draghi, oltre la politica
Siccome mi ero colpevolmente distratto ero rimasto ai soliti screzi, alle solite uscite e borbottii, niente che potesse inficiare la figura di Draghi. Che tra l’altro man mano che andavamo avanti conquistava consensi, insomma sentivo nei bar, nei crocicchi, un po’ in giro per l’Italia che in fondo era simpatico, cioè, lo stava diventando, ora faceva pure qualche battuta e comunque, simpatia o meno, siccome tutti parlavano sempre di Pnrr, nei bar, nei crocicchi, in giro per l’Italia, insomma di soldi o di investimenti, beh, chi meglio di Draghi poteva garantire un po’ di soldi per tutti, voglio dire, una promessa di Draghi – pensavo – era meglio del famoso milione di posti di lavoro o di altre dichiarazioni siffatte. Quindi a crisi avvenuta ho cercato di recuperare il bandolo della matassa ma credo che un po’ tutti i commentatori risultano distratti come me, almeno a leggere i titoli sui giornali. Contengono tutti i seguenti aggettivi: crisi assurda, inspiegabile, strana. Difatti da che non si muoveva nulla e dunque Draghi emergeva come statista, tutto è diventato solito teatrino e Draghi è naufragato per emersione della sceneggiata usuale. Non so se avete presente il solito teatrino, quelle parti in commedia che ai politici piacciono assai, li rendono protagonisti, come ai tempi Sartre circondato dai giornalisti che gli chiedevano lumi sull’esistenzialismo, ora invece vedi, grazie ai talk “ci scusi siamo in diretta”, i nostri politici uscire di notte con passo veloce, sguardo corrucciato, reduci da chissà quale simposio, inseguiti da sciami di giornalisti ognuno dei quali dice: “Scusi sono in diretta risponda...” e quello un po’ scocciato un po’ entusiasta dell’inseguimento risponde a mezza bocca, sussurrando, ghignando. Per non parlare di altri eventi, raccontati dalle foto del Parlamento, politici vari che formano capannello intorno al rappresentante di turno, sia esso Salvini, Letta, Renzi ecc. tutti intenti a cambiare il copione o cercare di imparare la nuova parte.
Ecco, in fondo – pensavo – Draghi si può raccontare soprattutto raccontando gli altri, che poi sarebbero il suo specchio distorto. Per esempio, una novità significativa, almeno per me che per deformazione personale colgo nelle narrazioni qualcosa di usurato, la novità, dicevo, è che Draghi parlava poco. Insomma, si limitava a invitare i giornalisti nelle conferenze stampa, dove con ordine e anche con un certo grado di competenza, i giornalisti domandavano e lui rispondeva. Ecco, io che ormai ragiono per euristiche e non sto appresso alle analisi politiche avrei scelto Draghi solo per questa caratteristica, insomma, ci rendiamo conto sì o no che grado di novità ha portato Draghi al teatro politico italiano? Ci rendiamo conto di quante chiacchiere? Di quanti talk fatti apposta dove i politici litigano dicono di tutto, dove per usare le parole di un famoso rap ante litteram di James Senese: Me fanne schife sempe e cchiù e’ conferènze ind’a tivù/ Tra chi a vò janche e chi a vò nere/ fernìsce sempe zero a zero”. Ci rendiamo conto che tutto questo parlare di politica, intervistando l’uomo del momento, o il cugino vicino all’uomo del momento, puntando la telecamera, moltiplicando la scena ecc., tutto questo fonda una speciale economia televisiva e teatrale con parti in commedia ben definite e nessuna fuga in avanti o nessuna soluzione? Ecco, Draghi è stato il nostro Bertolt Brecht, ha portato l’avanguardia in Parlamento, ha messo a tacere quelle inutili lezioncine imparate a memoria, spesso mal recitate che caratterizzano lo scenario politico italiano: ha introdotto il rito purificatore del silenzio prima dell’annuncio, della quiete prima della tempesta, o viceversa, della tempesta per arrivare alla quiete.
Siccome mi distraggo spesso, e proprio per questa serie di caratteristiche teatrali e finisco per guardare il lampadario, ho molto apprezzato la nuova via di Draghi. Ancora, siccome mi distraggo spesso e mi perdo i pezzi e ragiono con euristiche, questa novità introdotta da Draghi mi basta e avanza. Il nostro paese, poi, almeno a giudicare dalla quantità di governi uno dietro l’altro e dalla quantità di parole e interviste sprecate e talk televisivi annunciati come definitivi e poi si rivelano la solita chiacchiera, il nostro paese è tanto esperto nel primo atto, quello caratterizzato dall’annuncio: del farò, conquisterò, cambierò. Va fortissimo nel terzo, cioè risolve i conflitti che fino a un’ora prima sembrano irrisolvibile, uno stava su Marte l’altro su Venere, a tarallucci e vino, pronti per la prossima cena insieme. Ma è più carente nel secondo atto, quello dove l’eroe decide di cambiare passo, di lasciare la vecchia strada, rinunciare qualcosa e alla fine si accorge che l’obiettivo annunciato era solo un falso obiettivo, un altro più nobile lo attende. Non è che lo dico io: i numeri cantano eccome. In Italia siamo particolarmente abituati a sentire parlare di crisi di governo, dimissioni di primi ministri, maggioranze parlamentari che cambiano e stravolgono i risultati delle elezioni. C’è chi ha fatto i conti e po’ scoraggiato ha annunciato: la Repubblica dal 1946 ha visto alternarsi 67 governi, presieduti da 30 primi ministri che hanno ricoperto la carica più volte (il confronto con la tenuta di altri governi europei è scoraggiante, per noi, ovvio). E’ certo che anche qui le interpretazioni si sprecano, un po’ metti il sistema l’Italia. Che ci tocca ripetere sempre: l’Italia è una Repubblica parlamentare, in cui è il Parlamento che, sulla base delle maggioranze che si formano in aula a seguito delle elezioni, vota la fiducia a un governo, il cui capo è nominato dal presidente della Repubblica. Quindi, spiegano da tempo immemorabile i nostri più arguti giuristi non eleggiamo direttamente il presidente del Consiglio, ma votiamo i partiti o le coalizioni per eleggere i membri del Parlamento. Metti che quando ho cominciato a fare politica io, ed era il 1984, quello che più infastidiva era la lunga sequela di sigle, ognuno con una sede in un bel posto del centro di Caserta, ognuna di queste in genere vuote ma molto visitata nei periodi festivi, dove una miriade di persone di diverso ceto sociale andava in pellegrinaggio facendo la questua e per di più, forniti per l’occasione di grandi pacchi dono che, devo dire la verità, i negozi del centro confezionavano molto bene: infiocchettati a doveri, con i ghirigori giusti. Dalla Dc andavi per un motivo dal Pci per un altro, ancora un altro Pr, Pli ecc., ecc. Questo significava che dovevi mettere d’accordo molte sigle, molti questuanti, molti negozi che rifinivano i pacchi dono. E dunque, nella fattispecie, l’elevato numero di partiti, unito a un sistema elettorale che nel corso degli anni ha cambiato più volte modello (proporzionale, maggioritario, sistemi misti), ha di fatto contribuito a una frequente alternanza di esecutivi anche nel corso della stessa legislatura. Chi ha fatto i conti ha notato come confrontando la situazione con altri paesi a partire dal 1990, l’Italia ha visto cambiare ben 17 volte il capo del governo, cioè, diciamolo meglio, un totale di 21 esecutivi, guidati da 13 differenti primi ministri (Giulio Andreotti, Giuliano Amato, Silvio Berlusconi, Romano Prodi Massimo D’Alema e Giuseppe Conte hanno guidato più governi, anche consecutivamente). In Germania ci sono stati solo quattro cambi di governo. Oh, mica me li ricordavo, mica sono così attento. Mi distraggo continuamente. Ho dovuto consultare una piattaforma specifica (will_ita: che sono giovani e bravi). Cioè capite. Nella sostanza l’impianto teatrale a sostegno di questo modello (evviva il primo atto, evviva il terzo, abbasso il secondo) dà la possibilità a tutti di trovare la propria via di uscita, la propria giustificazione nobile (vista la nostra storia non potevamo accettare questo ricatto: è una frase che ho sentito dal 1984 a ieri, spesso dalle stesse facce che hanno indossato varie casacche). E per di più, se arriva un direttore di scena che metti il carisma, metti la serietà, metti svariate cose, oscura gli altri attori e non li fa parlare è chiaro che questo direttore per un po’ ha vita facile, poi però tutti gli altri che fanno? Chi li insegue? Chi può dire con sicurezza: un milione di posti di lavoro, via le tasse ecc.? La vecchia Prova di orchestra di Fellini, alla fine arriva: ‘sta palla di ferro distrugge tutto, e uno la può considerare con il ritorno a una parvenza di controllo o come il fascismo che impone regole o come altro. Questo è successo alla fine, c’era troppo silenzio e buon lavoro di squadra e i politici hanno sentito odore di file, di selfie, e vecchie ferite riaprirsi, vogliono tornare sulla scena. Allora se cade un pezzo, invece di risollevarlo ne fanno cascare un secondo. Come dicono tanti bravi commentatori: effettivamente le responsabilità della crisi sono distribuite, seppur in misure diverse, sia su alcuni partiti che sullo stesso Draghi. Poi però, appena la crisi è sembrata probabile ogni partito ha lavorato in modo da prepararla e gestirla per dare la colpa ad altri. Che è un classico della sceneggiata, il malamente di turno si trova. Poi diciamo la verità, avevamo un’occasione: il governo di unità nazionale, o come lo vogliamo chiamare, poteva essere considerato in due modi. Un modo per far solo casino, tanto si sa come fa a finire, un modo per essere altro da sé. Altro dalle file, dalle sigle, dalle appartenenze, un altro copione, diverso dal solito su cui scrivere una pagina nuova. In Inghilterra, la Bbc ha messo in onda un programma che seguiva i ragazzi dalle elementari fino all’età adulta: è durato più di 40 anni. Era Molto bello, perciò è durato tanto. Non è che cambiava il direttore dell’azienda e toglievano il programma, prima veniva la Bbc, poi la qualità del programma, poi gli umori del direttore di turno. C’era un accordo, e quel programma è stato portato avanti da diversi direttori.
Draghi offriva una compagnia stabile e seria, per portare avanti con serietà un programma. Non è andata così, ognuno è rientrano sotto il proprio direttore. Ognuno è tornato a essere solo, in fondo, perché ha saltato il secondo atto, che è il momento dell’incontro ed è rientrato nei ranghi.
Scrive Giovanni Robertini a proposito di Salvini che ha raccontano in un suo libro, la solitudine di Matteo: “Durante questa ultima legislatura, Salvini sembrava aver smesso le felpe del populista emo, mostrava giacche mal tagliate e ambizioni da statista moderato, ma la realtà, come abbiamo visto ieri, era ben diversa. Il leader leghista, fin dagli anni del liceo non ha mai nascosto il suo disprezzo per quel mondo radical chic, progressista e conformista che lo aveva rifiutato, per le ragazze aristo freak che lo consideravano uno sfigato. Poi è arrivato Draghi che lo ha accolto nella sua dimensione borghese, e si è illuso che quel mondo – il popolo della Ztl, come lo chiama lui – lo avesse finalmente accettato come uno di loro. Finché ieri Draghi non glielo ha detto in faccia, che quella era casa sua e doveva comportarsi bene. E Matteo, proprio come si faceva quando ci si imbucava ai party nelle case borghesi di Milano negli anni Novanta, spinto dal suo antico rancore, si è trasformato in uno “spacca feste”. Ora può finalmente tornare a far vivere la sua solitudine nell’unico modo che conosce”. Diciamo che può essere un buon ritratto di Draghi per interposta persona.