dopo Draghi
La gara tra Salvini e Meloni come specchio di due populismi gemelli
La competizione, la cipria sopra l’estremismo e il destino di una sfida nella sfida. Ma sono poi così diversi, Salvini e Meloni? Come smascherare l’inganno della finta moderazione della destra del futuro
Fingono di essere solidali, ma sono ossessionati l’uno dall’altro. Tentano di mostrarsi uniti, ma sotto sotto si sentono rivali. Provano a scambiarsi affettuosità in pubblico, ma in privato se ne dicono di ogni colore. Sono così, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, sono i gemelli diversi della destra italiana, diversi fino a un certo punto, e hanno passato gli ultimi anni a stuzzicarsi più o meno ogni giorno. Meloni lo ha fatto demonizzando il governo di cui Salvini faceva parte, descrivendolo ogni giorno come un esecutivo contro il popolo, contro gli italiani, contro i patrioti, schiavo dell’Europa, servo dell’establishment, asservito ai peggiori ceffi della finanza. Salvini, da parte sua, lo ha fatto provando a inchiodare Meloni alle sue irresponsabilità, lo ha fatto provando a mostrare il volto più sincero della sua incompatibilità “con i valori repubblicani” (sono virgolettati offerti in questi mesi da alcuni esponenti di primo piano della Lega) e lo ha fatto provando a ricordare agli elettori che i veri responsabili, quelli che non vogliono governare sulle macerie, quelli che non vogliono essere percepiti come anti europeisti, quelli che vogliono essere distinti dagli alleati per avere una classe dirigente di governo e non solo di lotta, sono loro, sono i leghisti che hanno governato in questi anni e non i fratellini d’Italia che hanno speculato sul governo altrui. E mentre Salvini lo faceva, mentre accettava di votare la fiducia al governo Draghi, mentre accettava di votare per Sergio Mattarella al Quirinale, mentre accettava di votare per il Pnrr, mentre accettava di votare per il green pass, mentre accettava di fare tutto questo il suo pensiero, il pensiero di Salvini, era lì, era sempre a Giorgia, era sempre a Fratelli d’Italia, era sempre rivolto alla sua grande ossessione: essere punito per governare, essere punito per non assecondare i follower complottisti, essere incapace di saper trasformare la responsabilità di governo in capitale politico.
Il governo Draghi è caduto per molte ragioni, è caduto in primis per la destabilizzazione prodotta dal Movimento 5 stelle, è caduto per la tentazione irresistibile della Lega di capitalizzare le divisioni degli avversari potendo scaricare su qualcun altro la responsabilità del draghicidio, ma è caduto prima di tutto perché Salvini, guardandosi nello specchio di Giorgia, non è riuscito a non vedere tutto quello che avrebbe voluto essere: un leader di lotta. E dunque, ora che sono lì, di nuovo insieme, ora che dovranno dimostrare di essere uniti e compatti, ora che dovranno dimostrare di essere una coalizione solida, vale la pena porsela la domanda: ci sono differenze vere tra Salvini e Meloni? O meglio: ci sono elementi concreti che ci possano dire che l’essere fratelli coltelli è qualcosa che riguarda la sostanza e non solo la forma?
Se si cerca di andare a fondo, guardando ciò che riguarda la sostanza e non la forma, si noterà che esistono almeno due differenze, tra il modello Meloni e il modello Salvini.
La prima differenza riguarda ciò che circonda i due leader e la differenza qui è abissale. La Lega ha una classe dirigente sul territorio, una classe dirigente che senza successo ha cercato fino all’ultimo di trasformare l’appartenenza al governo Draghi in un’occasione per archiviare il populismo salviniano, mentre Fratelli d’Italia una classe dirigente tranne alcune eccezioni come il governatore dell’Abruzzo Marsilio non ce l’ha e non riesce a coltivarla e anche laddove la coltiva non riesce a confermarla (vedi il caso dell’ex sindaco di Verona). Mentre Fratelli d’Italia, seconda differenza, ha una leadership forte, riconosciuta, non usurata, consapevole dei propri punti di forza e dei propri limiti, che ha scelto di fare dall’opposizione quello che Salvini non è riuscito a fare mentre era al governo: passare uno strato di cipria sul proprio populismo e inventarsi una nuova forma di presentabilità attraverso un’adesione piena all’atlantismo (cosa su cui Salvini fatica) attraverso una rimozione del proprio passato lepenista (cosa su cui Salvini non spicca), attraverso una difesa a oltranza della resistenza ucraina (cosa su cui Salvini non brilla). Differenze, sì, a volte anche di sostanza, ma differenze che poi, quando si guarda ai programmi, spariscono come d’incanto, e la verità è che quando Salvini e Meloni saranno lì lì per provare a trovare punti di incontro, sul programma di governo da presentare alle elezioni, non avranno grossi problemi a mettersi d’accordo sulle idee che contano: la propria visione dell’Europa (meno sovranismo europeo, più sovranismo nazionalista), la propria visione sull’immigrazione (più muri, meno Europa), la propria visione sulla giustizia (garantismo di facciata, logica dello scalpo nella sostanza), la propria visione sulla globalizzazione (società aperta no, grazie). E dunque sì. Il sogno di vedere una destra capace di trasformare il suo rapporto con Draghi in un’occasione per allontanare il suo istinto populista è un sogno tramontato nell’istante in cui Salvini ha convinto Berlusconi a trasformare Mario Draghi in un agnello da sacrificare al cospetto dell’agenda Papeete. Ma il destino della destra – e la sua volontà di emanciparsi dalla stagione dello sfascismo, del populismo, del complottismo, volontà solo presunta e distante dai fatti – è tutto lì: è nella capacità di Meloni e Salvini di interpretare la loro competizione non come una gara a chi urla di più ma come una gara in cui provare a dimostrare che rottamare l’agenda Draghi non significa riportare le lancette all’orrore del 4 marzo del 2018. Se si osserva la cipria, si potrebbe essere ottimisti. Se si osserva cosa c’è sotto la cipria, l’ottimismo sparisce come neve al sole. Pieni poteri o pieni doveri? Il futuro della destra, in fondo, passa tutto da qui.