Processo alla destra
Cosa possono fare le destre per essere compatibili con l'agenda dei doveri? Girotondo
Identità, tabù, populismi, estremismi da governare, opportunità da sfruttare. Cosa c’è dopo il draghicidio? Paure, obiettivi, strategie possibili
Siamo alle porte di una campagna elettorale inedita, con un’unica certezza: fa caldo, molto caldo. Temperature torride, e un centrodestra che, per paradosso, finisce sul banco degli imputati. Un finale inaspettato per i partiti che hanno posto fine al Conte-bis quando la sinistra sognava il Conte-ter, e oggi vengono accusati di irresponsabilità. Il momento è drammatico, si sa, per votare in Italia poi lo è sempre, così assistiamo, attoniti in un’atmosfera di afa meteo-politica, ai titoli di coda di una legislatura nata male, malissimo, eppure tenuta in vita con le formule più astruse, due governi di segno opposto (e un premier sconosciuto, sempre il medesimo), seguiti da un terzo governo, all’insegna del “whatever it takes”, che si impantana formalmente su un termovalorizzatore nella capitale lastricata di monnezza. Ma la colpa, infine, è del centrodestra. Il Quirinale ha deciso: il 25 settembre gli italiani torneranno a esprimersi non con sondaggi e petizioni ma con le schede inserite nelle urne elettorali. L’ultimo voto in autunno risale al 16 novembre 1919: le prime elezioni con il proporzionale, le ultime prima della marcia su Roma, di cui in ottobre ricorre il centenario. E poi che cosa accadrà? Che il processo abbia inizio.
“Mio suocero usa un proverbio, a suo modo efficace: Giorgio voleva andare e il vescovo lo voleva mandare”, esordisce così il professore Giovanni Orsina, direttore della School of Government alla Luiss G. Carli di Roma. Gli chiediamo, anzitutto, l’interpretazione autentica di questo inconsueto modo di dire. “Al centrodestra di governo non dispiaceva l’idea di strappare, anche se l’ipotesi a quel che sembra albergava più nella testa di Salvini che di Berlusconi. E tuttavia, alla fine, entrambi erano disposti a restare, a certi patti. Draghi però ce li ha mandati...”. Lei sta dicendo che Lega e Forza Italia non avevano un piano precostituito di rompere? Ne è proprio sicuro? Dalle cronache degli ultimi mesi sembra il contrario. “Non credo che lo avessero. Quella a cui abbiamo assistito è una crisi in cui tutti gli attori in campo sono entrati ciascuno con più di un’ipotesi in testa: piani a, b, c… Il centrodestra di governo era disposto a tenere Draghi al suo posto ma anche pronto al voto anticipato. Anzi, azzarderei a dire che, nel complesso, Lega e Fi erano più orientati a restare che ad andare. Draghi ha tenuto un discorso che, volutamente o meno, ha dato al centrodestra la netta percezione di non essere più un partner gradito, quel discorso aveva chiari accenni anti-centrodestra, era un discorso duro ma asimmetricamente”. In che senso? “Il premier ha rimbrottato il centrodestra sulla questione di tassisti e balneari ma non ha fatto altrettanto con quegli altri ricordando, per esempio, che ius scholae e cannabis erano pure quelle questioni divisive e identitarie che sarebbe stato meglio tenere fuori dal perimetro di una maggioranza di quasi unità nazionale. Il discorso di Draghi è stato duro solo nei confronti della destra, la replica è stata durissima nei confronti dei 5Stelle, chiudendo anche l’altra porta”. Una conseguenza della fine del governo Draghi è la ritrovata compattezza di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. “E’ indiscutibile. Possiamo ragionare a lungo sulla reale coesione politica interna al centrodestra ma con questa iniziativa è evidente che il fronte si sia ricompattato. Restano alcune linee di demarcazione su cui è necessario fare chiarezza una volta per tutte, tanto più alla prova della campagna elettorale e del possibile governo che seguirà. Il primo ragionamento riguarda la politica internazionale ed europea: bisogna chiarire da che parte si sta. Esistono fratture tra i partiti e dentro i partiti. Come fanno Salvini e Berlusconi, piuttosto teneri nei confronti della Russia, ad allearsi con l’atlantista Meloni? Anche sul conflitto in Ucraina serve una linea unitaria. Sul fronte europeo, poi, i tre partiti stanno in tre gruppi diversi, e la distanza tra Meloni e Salvini da una parte e Berlusconi dall’altra va colmata se si vuole essere una coalizione credibile. Chi vuole governare l’Italia non può essere né atlantista tiepido né euroscettico. Se vogliono governare, devono dare rassicurazioni, esattamente come sui temi economici che riguardano la tenuta dei conti pubblici, il rientro dal debito e la gestione del vincolo esterno”. La Bce ha alzato i tassi di interesse di mezzo punto, non accadeva dal luglio del 2011. “E’ stato anche approvato il cosiddetto scudo anti-spread, vale a dire lo strumento di protezione del meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Sono segnali importanti perché l’Italia si muove in un quadro di rapporti internazionali, e il post pandemia, la collocazione del debito e l’andamento dello spread sono questioni fin troppo reali.
Non sempre sono politicamente neutrali, certo, ma anche la loro non-neutralità è parte della realtà con cui dobbiamo fare i conti. Vi ricordate che cosa accadde quando, all’epoca dei gialloverdi, si parlò di Paolo Savona alla guida del ministero dell’Economia? Non si può giocare con scenari da Italexit perché gli investitori, o mercati internazionali che dir si voglia, non sono troppo sofisticati: basta un segnale in una direzione e reagiscono.
A volte è sufficiente una parola sbagliata per far crollare le Borse. Chi vuole governare deve dire chiaramente che l’ancoraggio dell’Italia all’Europa e all’euro è irreversibile”. Con la fuoriuscita di Brunetta, Carfagna e Gelmini, si attende un rimescolamento dentro al centrodestra? “Io ritengo che Fi cesserà di esistere soltanto quando il presidente Silvio Berlusconi non ci sarà più. Fino ad allora, FI resta un patrimonio di capacità politica e di elettori, visto che veleggia ancora oltre il 9 per cento. C’è una partita da giocare: FI può aspirare a diventare la gamba moderata di un’alleanza di destra. Berlusconi ha sempre ragionato in un’ottica di bipolarismo, concependo se stesso come il costruttore del centrodestra. L’iniziativa che ha portato alla caduta del governo Draghi è coerente con la sua storia. Adesso si gioca la partita di costruire un’alleanza non sgangherata ma proponibile a livello internazionale ed europeo. Del resto, l’alternativa per il Cavaliere sarebbe stata strappare FI a Salvini e Meloni per traghettarla, come appendice liberale, in un’alleanza di centrosinistra egemonizzata dal Pd. Non un gran progetto, francamente”. Lei vede un futuro a sinistra per i fuoriusciti di FI? “Sì, bisogna capire se avranno il tempo di mettere in piedi qualcosa. Ma il loro futuro politico mi pare sia nella galassia centrista che gravita verso il Partito democratico in un progetto di fedeltà draghiana”. La Lega di Matteo Salvini invece appare più salda nei suoi assetti interni. “L’operazione di sostituzione del segretario federale poteva avere qualche chance fino a ieri ma adesso, con la rottura del governo e il ritorno alle urne, Salvini è più forte. Strappando con il Pd ha ottenuto ciò che voleva, ha messo a segno un colpo vincente, e malgrado sia appannato resta per la Lega una risorsa elettorale irrinunciabile”. Il progetto di lista unica, FI più Lega, sembra tramontato. Ognuno correrà con il proprio simbolo. “La lista unica poteva servire per bilanciare l’ascesa di Giorgia Meloni ma bisogna tenere presente che le fusioni non sono sommatorie di voti ma spesso, al contrario, funzionano per sottrazione: l’intero è inferiore alla somma delle parti”. Meloni sarebbe la prima premier donna nel nostro paese. “Io vedo ancora un problema di legittimazione europea”. Ma se fosse la leader più votata si potrebbe negarle l’incarico? “L’Italia, piaccia o meno, non è un paese pienamente sovrano, siamo inseriti in un quadro di vincoli internazionali e siamo esposti a molteplici pressioni interne ed esterne. In un sistema politico complesso come il nostro, integrato all’interno dell’Europa, la legittimazione democratica è una parte dell’equazione, non tutta l’equazione. L’ipotesi di Meloni premier presenta dei punti di debolezza. Lei stessa potrebbe decidere di svolgere il ruolo di king maker piuttosto che andare direttamente a Palazzo Chigi”.
Si astiene da sentenze facili anche Massimo Cacciari: “Le vicende che hanno condotto alla caduta del governo Draghi somigliano alle trame dei gialli di Agatha Christie. Sull’Orient Express è difficile individuare il colpevole dell’assassinio, i complici sono parecchi. Quanto accaduto nell’aula del Senato è stato l’epilogo di una legislatura unica nel suo genere. In questi cinque anni abbiamo visto di tutto: esecutivi compositi oltre ogni immaginazione, presidenti del Consiglio provenienti da mondi esterni alla politica, il totale affidamento a poteri tecnico-burocratici a prescindere e, da ultimo, un premier che lascia pur avendo una maggioranza parlamentare dichiarata ma da lui ritenuta fittizia. Sono stati cinque anni catastrofici, e la colpa è solo dei partiti, di tutti i partiti, che hanno raschiato il fondo del barile. Non sono una classe politica, non sono un ceto dirigente, ma sono travolti dalle loro impotenze. Adesso ci auguriamo che, in vista delle prossime elezioni, possano dare segni di ritrovata vitalità”. Insomma, lei non vede soltanto la manina di FI e Lega nel cosiddetto “draghicidio”... “E’ stato l’epilogo di un processo di sfarinamento della coalizione. C’entra il centrodestra, esattamente come il centrosinistra e Giuseppe Conte. Draghi ha esplicitamente dichiarato che con la maggioranza di cui disponeva non si potevano realizzare le cose ritenute indispensabili. E’ evidente che, all’indomani della scissione di Luigi Di Maio, Conte aveva l’esigenza di occupare una posizione alternativa a quella del ministro degli Esteri. Mi pare che Conte non avesse alcuna intenzione di andare ad elezioni anticipate dove prenderà una batosta incredibile. Tutti hanno agito perseguendo i propri fini senza tener conto delle reazioni altrui. Probabilmente FI e Lega non si sono resi conto che, decidendo di non votare la mozione Casini, sarebbero rimasti con il cerino in mano, il che è sempre dannoso elettoralmente. Il resto è politichese, anzi palazzinese”. Di certo c’è che adesso il centrodestra si è ricompattato, e Berlusconi, determinato a candidarsi personalmente, ha già lanciato alcune proposte: pensioni a mille euro e la piantumazione di un milione di alberi ogni anno. Cacciari ride bonario. Professore, non rida. “Non mi stupisce che Berlusconi si candidi, il suo 5 o 6 per cento non glielo toglie nessuno. Neanche i ministri che sono fuoriusciti da FI. Ha ragione Berlusconi: a loro auguriamo buon riposo”. Che campagna si preannuncia? “Sarà infuocata, sotto ogni punto di vista. Letta, abilmente, porrà come tema centrale quello della collocazione geopolitica dell’Italia. Uno dei refrain contro il centrodestra sarà la simpatia filo Putin e il traballante atlantismo. Salvini ha già detto che punterà su tasse e sicurezza, tornerà a dirci che lui è il migliore ministro degli Interni, che quando era al Viminale non sbarcava nessuno, ma ogni imprenditore sa che, senza flussi in entrata, avrebbe già chiuso. Salvini è quello che sa prendere i voti, e nella Lega lo sanno pure Giorgetti, Zaia e Fedriga. La Lega, senza Salvini, non prende voti perché non può vivere come partito moderato di centro, come una riedizione di FI”. Chi vincerà? “Impossibile dirlo. Con questo sistema elettorale, per vincere devi prendere più del 50 percento di voti. Enrico Letta è nei pasticci: non può accordarsi con Conte prima delle elezioni ma, chiuse le urne, ne vedremo di ogni colore. Se non esce una maggioranza netta, assisteremo alle cose più impensabili e impensate”.
A sentire il vicedirettore de La Repubblica Francesco Bei, lo showdown del governo Draghi ha un preciso responsabile che merita una condanna senz’appello: il centrodestra. “Certo che si poteva evitare, non era un finale già scritto. La verità è che FI e Lega avevano davanti a sé due strade: la prima imponeva di completare il percorso avviato con l’elezione della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e con il sostegno all’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce.
Lo sbocco naturale di questo percorso prevedeva l’approdo della Lega dentro il Partito popolare europeo. Poi c’era la strada opposta, quella di un ritorno alle origini, ad un sovranismo di destra, di segno antieuropeo. E’ prevalsa la seconda opzione. FI e Lega hanno deciso di rinnegare l’opera compiuta tornando alla casella di partenza in uno spazio politico già presidiato, con coerenza, dal partito di Meloni”. Secondo Berlusconi, il premier Draghi ne aveva le “scatole piene”. “Io ho visto un Draghi deciso a tenerli dentro. Si ipotizzava una nuova scissione dentro i 5Stelle che avrebbe consentito ai grillini, riuniti intorno al capogruppo Davide Crippa, di sostenere la prosecuzione del governo, con gli stessi ministri e con il centrodestra dentro. Ma FI e Lega hanno alzato l’asticella ponendo condizioni via via più onerose: basta con i 5Stelle, fuori i ministri Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. Hanno messo Draghi con le spalle al muro. Si sono autoespulsi dal governo”.
In realtà, si trattava su un possibile appoggio esterno di Conte, una prospettiva indigesta al centrodestra di governo. “Quanto accaduto non va sottovalutato nella sua gravità. Mi riferisco segnatamente alle componenti più ragionevoli di ogni partito, a partire da Antonio Tajani che è stato al vertice delle istituzioni europee e non può ignorare il discredito internazionale gettato sull’Italia. Per le grandi testate straniere, è tornata la vecchia Italietta. FI e Lega hanno commesso un atto di gravità senza precedenti, la penisola italiana sta per diventare la penisola di Crimea”. L’ipotesi di un governo di destra è davvero l’Apocalisse? “Da italiano mi piacerebbe potermi fidare ma io fatico a credere alla svolta filoatlantista di FdI. A parte i discorsi ufficiali di Guido Crosetto, quando scavi vengono fuori i discorsi dei vecchi ragazzi del Fronte della Gioventù”. Sulle credenziali atlantiste di Meloni esiste ampio consenso. “Vox e Orban possono essere gli alleati di una forza atlantista? Dietro una sottilissima patina di propaganda filo-occidentale, si nasconde un’enorme ipocrisia”. Tra i nomi di un futuribile governo di centrodestra risaltano personalità del calibro di Giulio Tremonti, Elisabetta Belloni, Carlo Nordio, Giampiero Massolo... “E’ una spruzzata di propaganda, il lupo che indossa la cuffietta della nonnina... Forse è un wishful thinking di Crosetto o un’operazione di European washing, teso a occultare la natura autentica della destra italiana”. La fuoriuscita di Brunetta, Carfagna e Gelmini accelera un processo di rimescolamento interno a FI? “Il giorno della caduta di Draghi segna il de profundis di FI che ha smesso di esistere come forza politica autonoma. FI è una corrente della Lega con il povero Berlusconi al quale fanno dire qualsiasi cosa. Le immagini del convivio di Villa Grande con il vecchio leader tenuto per mano dalla fidanzata d’azzurro vestita erano agghiaccianti”. Si avverte un filo di acredine nelle tue parole... “Si è appena consumato il Big Bang della politica italiana. L’albero è stato scosso nel profondo, e i frutti devono ancora cadere. Draghi ha sì fallito la missione di trasformare i partiti italiani, di renderli più seri e aderenti alla realtà europea delle cose, ma è stato un potente lievito dentro le singole forze politiche per far crescere un’area della responsabilità che sarà protagonista anche in futuro”. Si prevedono ulteriori smottamenti? “Tra Renzi e Gelmini, non vedo distanze politiche, esattamente come tra Brunetta e Calenda, o tra Cangini e Giorgetti. E’ ragionevole che i simili si mettano insieme”. E nella Lega? “Per il Carroccio serviranno tempi più lunghi. Se FI è un partito in disfacimento con il tana libera tutti, nel partito di via Bellerio gli avversari interni di Salvini attenderanno le elezioni. In campagna elettorale è fisiologico stringersi intorno alle bandiere, poi se il voto dovesse andare male gliela faranno pagare. Il primo terreno di confronto sarà con Meloni: se la Lega prende un voto in meno, sono guai per Salvini”.
Nicola Porro, conduttore di Quarta Repubblica su Rete4, non ci sta a processare la destra: “Come si fa ad addossare al centrodestra la responsabilità della fine del governo Draghi quando abbiamo avuto una legislatura con due governi, uno peggio dell’altro, seguiti da un terzo governo che non aveva neanche la maggioranza per realizzare un termovalorizzatore, voluto dalla sinistra a Roma? Il centrodestra, compreso Berlusconi, riteneva che Draghi andasse troppo per i fatti suoi, c’era irrequietezza in FI, non soltanto nella Lega. D’altra parte, Draghi si era stufato da diversi mesi e lo aveva detto pubblicamente nella conferenza stampa di fine anno quando sperava di andare al Quirinale. Si era autodefinito un nonno al servizio delle istituzioni, pronto ad andare altrove. Stufo o non stufo, il dibattito è mal posto. Draghi voleva andarsene e l’aveva detto”. Questa è la versione di Berlusconi, smentita da Draghi. “Se c’è una persona che Draghi detesta è Silvio Berlusconi il quale può sempre dire di averlo nominato alla Banca centrale europea. Come quella donna di facili costumi che quando fa un bel matrimonio vuole vedere tutti tranne gli amici d’infanzia. Mi viene da ridere perché in quel periodo Brunetta non era affatto convinto di quella nomina a Francoforte”. Sui fuoriusciti da FI, Berlusconi ha detto: “riposino in pace”. Sul piano dei consensi, FI subirà un contraccolpo? “Il colpo sarà inesistente. Dei tre ministri, l’unica con un séguito, per quanto esiguo, è Gelmini. Il punto è un altro: Berlusconi è del tutto inaffidabile nelle sue rabbie. È pronto a riaccoglierli domattina, tanto che la più furba e cinica di tutti, Mara Carfagna, non ha avuto il coraggio di rompere davvero usando un linguaggio felpato, da equilibrista. Berlusconi ha riaccolto Polverini, figurati se non riaccoglierà questi tre”. La Lega è più compatta al suo interno? “Il Carroccio resta un vero partito della Prima Repubblica in cui convivono due anime, amministrativa ed elettorale. I ministri leghisti hanno offerto le loro dimissioni, respinte. Giancarlo Giorgetti resta una delle persone più serie nel partito, sa che cosa vuol dire affrontare vuoti di governo, ha sensibilità diverse da coloro che devono raccogliere i voti”. Il centrodestra, adesso ricompattato, può vincere le elezioni del 25 settembre? “A mio giudizio, è assai probabile che le perda. Per vincere, al Senato non bastano 101 seggi ma ce ne vogliono almeno 115. Una cosa però dev’essere chiara: se i partiti del centrodestra vogliono avere qualche speranza, devono indossare l’elmetto americano. Non si vince contro l’America. Il centrodestra deve dimostrare di essere, per la Nato e per gli Usa, un alleato più affidabile rispetto a questa accozzaglia di sinistra che non è mai stata atlantista. L’ingresso della Lega nel Ppe sarebbe un punto di svolta. Hanno un mese di tempo per dare prova di una scelta di campo chiara. E poi bisogna allargare il più possibile al centro: non esiste centrodestra senza Meloni ma bisogna imbarcare quanti più centristi possibili. Non possono stare fuori Brugnaro e Toti. Devono invece stare fuori Sala e Di Maio. Il mio sogno sarebbe avere Renzi e Calenda dentro”. Gli elettori conosceranno il candidato premier prima del voto? “Sarebbe straordinario se centrodestra e centrosinistra esprimessero prima il candidato alla presidenza del Consiglio, ma non prendiamoci per i fondelli: non accadrà. E non ha senso prendersela con i partiti. E’ il sistema costituzionale ed elettorale che non ti consente di fare una scommessa al buio”. Quanto ai temi della campagna elettorale, conviene puntare su flat tax e sbarchi? “L’immigrazione è una bomba nucleare inesplosa, esattamente come l’inflazione due anni or sono: già allora si capiva che banche centrali ed economia avrebbero portato ad un aumento incontrollato dei prezzi. L’importante è evitare l’elenco dei problemi. C’è l’inflazione al 9 percento? Lo sappiamo. Le bollette aumentano? Lo sappiamo. Va bene battere sulla riduzione fiscale ricordando che non avremo mai più un incremento del debito pubblico di 150 miliardi di euro, un risultato di Draghi negli ultimi diciassette mesi”. Se il nuovo Parlamento approvasse, nei tempi stabiliti, la legge di bilancio, sarebbero definitivamente smentiti i profeti di sventura che preannunciavano l’Apocalisse in caso di voto anticipato.”Esiste un establishment composto dai giornali che non legge più nessuno e da intellettuali che amano il popolo a parole ma non ne apprezzano l’odore”.
Respinge ogni accusa di “draghicidio” per il centrodestra il direttore del Giornale Augusto Minzolini: “E’ fuor di dubbio che FI e Lega avessero interesse a tornare al voto, ma non intendevano certo assumersi la responsabilità di provocare una crisi di governo. Il primo passo si deve a Conte che non ha votato il dl Aiuti. La questione è che, con l’autunno caldo che ci attende sul piano sociale, il centrodestra di governo aveva bisogno di garanzie e di una maggioranza compatta. Tali richieste sono state respinte. Il Pd, dal canto suo, ha tentato fino all’ultimo di tenere Conte aggrappato al carro della maggioranza, evocando addirittura l’appoggio esterno. Tale ricostruzione è stata confermata anche da Matteo Renzi. L’ipotesi di un governo che andava avanti con i grillini mezzi dentro e mezzi fuori avrebbe esposto Salvini e Berlusconi ad un ulteriore pressing di Meloni. E poi, senza una maggioranza chiara e solida, non governi ma tiri a campare. Allora non vale più la pena”. I problemi interni alla maggioranza li ha denunciati, per primo, il premier. “Draghi ha lasciato che il Quirinale e il Pd giocassero la loro partita, con un atteggiamento poco interessato a proseguire. Ma non c’è stato un atto ostile del centrodestra. Solo di Conte”. Il centrodestra può vincere? “E’ complicato ma può riuscire. Molto dipende da come si schierano gli altri. Nell’intelligente tattica di Enrico Letta, inglobare il potenziale centro e tagliare con Conte non porterà a nulla. Diverso se il centro va da solo e si rende competitivo con l’ala moderata del centrodestra. Un Brunetta in alleanza con il Pd che appeal può avere?”. Alla fine FI e Lega si presentano con liste distinte. “La lista unica non avrebbe senso. Se devo presidiare il centro non possono fondermi con la Lega”. Berlusconi ha proposto che sia l’assemblea dei futuri eletti a designare il premier, in caso di vittoria. Un escamotage per sbarrare la strada a Meloni? “Su Il Giornale, già lo scorso 29 giugno scrivevo dell’ipotesi del premier del centrodestra indicato dagli eletti e non dalla lista più votata. In questo modo prevale una logica di coalizione in grado di attivare un meccanismo virtuoso, collaborativo, e non la logica fratricida che abbiamo visto in passato. Se ogni lista ha il proprio candidato premier, le elezioni politiche diventano primarie e si innesca una dinamica ostile tra le tre principali forze del centrodestra”. Il vincolo esterno impone una prova di maturità anche nella politica estera. “Per governare, devi dare delle garanzie. Il centrodestra, se vince, deve assumere un profilo europeista, senza ambiguità. Se in via Venti Settembre, al posto di Savona, indichi Fabio Panetta, che è la controfigura di Draghi, attuale membro del Comitato esecutivo della Bce, fai una scelta rassicurante”.
Per il condirettore di Libero Pietro Senaldi, “il centrodestra ha reagito nell’unico modo possibile. Non ha cercato la crisi ma si è sentito aggredito in aula, con la netta sensazione che quello guidato da Draghi fosse un governo di figli e figliastri. Come se loro dovessero portare i voti e stare zitti. Nel suo discorso, il presidente del Consiglio lo ha ammesso esplicitando attaccando soltanto una parte, per non parlare del giorno prima quando aveva incontrato solo Enrico Letta prima delle proteste di Fi e Lega. Le parole del capogruppo al Senato Massimiliano Romeo sono state inequivocabili: presidente Draghi, noi vogliamo un governo sotto la sua guida ma con un programma e una compagine rinnovati. La risposta è stata un sonoro no”. Il risultato è che il centrodestra sembra tornato compatto. “Me lo auguro. Se tale compattezza non dovesse durare, farebbero meglio a ritirarsi a vita privata”. Si preannuncia una campagna elettorale ruggente? “Già mi vedo la sinistra che agiterà lo spauracchio dell’Europa e dei mercati nel tentativo di alimentare paure e allarmi su un eventuale governo di destra. Diranno che l’Italia uscirà dall’euro, che manderemo i soldati in Siberia... La questione delle relazioni internazionali è spesso sovradimensionata”.
Il Pd, per intenderci, ha delle amicizie negli Usa, perciò quando è in difficoltà chiama oltreoceano e chiede aiuto: per favore, potete dire che siete preoccupati per l’ascesa di Meloni? Funziona così, ma nessuno ha paura di Giorgia Meloni. Al centrodestra consiglierei di non raccogliere le provocazioni e di prediligere toni moderati. Dicano la verità: la destra non governa da dieci anni, il risultato è che l’Italia è attraversata da inflazione, cavallette, crisi sociale, rischi di carestie... Puntino sui temi classici: liberismo, meritocrazia, sburocratizzazione, riforma della giustizia, efficienza amministrativa”. Meloni premier è un’ipotesi possibile o il Quirinale indicherà soluzioni diverse? “Se ci pensi, nella legislatura in corso abbiamo avuto due premier che mai nessuno di noi si sarebbe immaginato. Ogni partito cercherà di guadagnare un voto in più per avere poi un peso maggiore nella designazione del futuro premier”. Berlusconi ha dichiarato che il premier sarà designato da un’assemblea dei nuovi eletti... pescheranno ancora una figura esterna ai partiti? “Il tema della premiership mi sembra prematuro e divisivo. Io penso che le forze del centrodestra punteranno su un governo politico ma molto ampio, guidato da personalità anche esterne”. Si fanno nomi rispettabilissimi come Tremonti, Belloni, Nordio, Massolo... “Tutti migliori degli attuali”. In FI si prevedono nuove fuoriuscite? “E’ possibile ma non credo che sposteranno voti. Brunetta, Carfagna e Gelmini erano già con un piede fuori, andranno a farsi candidare da Franceschini, Renzi o Toti”.
Chi pensa che il centrodestra sia da condannare, senza se e senza ma, è Federico Geremicca, editorialista de La Stampa: “FI, Lega e anche il Pd sono entrati in questa crisi come nella vicenda del Quirinale dove il problema era solo per una piccola parte scegliere il presidente della Repubblica ma, per la gran parte, riguardava la messa in sicurezza della legislatura per evitare elezioni anticipate. FI e Lega hanno deciso di far pace con la Meloni concedendo il ritorno alle urne che lei chiedeva da tempo. Così facendo, hanno approfittato dell’errore commesso da 5Stelle e Conte. Se avessero tenuto in piedi il governo anche questa volta, sarebbe stato pressoché impossibile tenere in piedi il rapporto con la Meloni. Va detto che anche nel campo avverso il principale elemento di minaccia usato da Enrico Letta contro Conte è stato: non vado alle elezioni con te. Anche il Pd si giocava il profilo della coalizione con cui sarebbe andato a sfidare il centrodestra”. Il comportamento di Conte è apparso a dir poco ondivago. “Il leader dei 5Stelle ha commesso una scivolata tremenda: ha tirato il sasso e poi si è inabissato. Non ho capito quali fossero le sue reali richieste, dove volesse andare a parare, mi pare evidente che non è stato libero nelle scelte. L’uscita di Di Maio ha accresciuto il peso specifico dei duri e puri all’interno del Movimento. Va anche notato che, esclusa FdI, non c’era un partito che non avesse fronde importanti al suo interno: tutti i partiti erano divisi. Lo sbocco più evidente, adesso, riguarda Fi con i ministri fuoriusciti”. Accadrà lo stesso nella Lega? “No, la Lega tiene su questa linea. Se doveva spaccarsi, si sarebbe spaccata prima. Salvini ha tanti limiti ma i voti li sa pigliare. Alla Lega conviene tenerlo lì dov’è. Non credo che Fi sia destinata a diventare una corrente della Lega ma potrebbe tornare in voga l’ipotesi di federare i due partiti per contrastare l’ascesa della Meloni”. E poi c’è l’eterno Cav, con la sua voglia di tornare in campo. “Berlusconi è più attivo che mai. Qualcuno lo descrive eterodiretto, probabilmente perché non conosce l’uomo. Penso che abbia molta voglia di rimettersi in gioco e, se così accadrà, rischia di diventare il protagonista della campagna elettorale. Forse, nei giorni precedenti la crisi di governo, un segnale si poteva cogliere nelle parole consegnate dal presidente di Mediaset Fedele Confalonieri ad Aldo Cazzullo sulle colonne del Corriere della sera: l’endorsement verso Meloni non era un messaggio di poco conto. In questi trent’anni le aziende hanno sempre avuto un peso nelle decisioni del Cavaliere”. Se Meloni fosse la leader più votata, toccherebbe a lei l’incarico di formare un governo? “Se il centrodestra ottiene la maggioranza parlamentare, sono certo che il presidente Sergio Mattarella conferirà l’incarico non a chi ha preso più voti ma a chi ha la possibilità di raccogliere il consenso parlamentare più ampio. Se il centrodestra vince e Meloni, come credo, ottiene più voti di FI e Lega, sarà lei a ricevere l’incarico. Perché ciò accada, però, è necessario che la candidatura di Meloni a Palazzo Chigi sia tenuta nascosta il più a lungo possibile”. In che senso? “Va tenuta nascosta perché, se l’elettorato moderato scoprisse che l’obiettivo è Meloni a Palazzo Chigi, non gradirebbe”. Addirittura? “Ho molti elementi per ritenere che l’elettore medio di Fi o della Lega non è pronto a una soluzione simile. Meloni premier è un’ipotesi che non allarga ma restringe le potenzialità elettorali del centrodestra. E poi per lei sarebbe una sciagura: come fai a misurarti con un precedente come Mario Draghi? Per Meloni sarebbe un triplo salto mortale”. A proposito di elettorato, se il Pd è il partito delle Ztl e la Lega quello degli operai, il ceto medio chi vota? “Nella società esistono i cosiddetti ‘pesci pilota’ dotati della capacità di orientare le masse. Se monta l’idea che la fine di Draghi è stata un errore e che bisogna scongiurare ipotesi estreme, molti ex berlusconiani se ne staranno a casa piuttosto che votare Salvini o Meloni. Corrono un rischio a caratterizzarsi come la coalizione di Meloni. Per gli altri, i riferimenti sono al centro, in figure come Calenda e Renzi”. Esiste un rischio di smottamento nel posizionamento geopolitico dell’Italia? “Rispetto alle nostre alleanze, anche militari, Meloni è stata nettissima. Non vedo difficoltà: FdI è atlantista. Quanto all’interlocuzione in Europa, invece, i problemi esistono eccome. Puoi avere tutte le ragioni del mondo ma se li chiami burocrati ubriaconi è difficile interloquire con loro. Le difficoltà le vedo più sulla qualità dei rapporti con l’Europa che sul fronte Nato o Usa. Se tornano sui Savona e i Borghi, si tagliano le gambe da soli”. Eppure si fanno nomi di tutto rispetto per un futuro governo... “Bisogna vedere se sono i nomi veri. Tu te lo vedi Massolo in un governo con venature antieuropeiste? Io non ce lo vedo”. Con Meloni premier Salvini tornerebbe al Viminale? “Non credo che avrebbe problemi a dirgli di sì”.
La “paura delle destre” è estranea a Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale. Per Cassese che, ai tempi della corsa al Quirinale, condivise una minestra di verdure con Matteo Salvini, “la democrazia è diversità, contestazione del potere, dialettica, contrapposizione. Perché mai Salvini e Meloni dovrebbero farmi paura? Mi fanno paura le persone impreparate perché guidare lo stato è più complesso che guidare un’automobile e i pericoli di ‘andare a sbattere’, provocando danni, sono molti”. FI e Lega sono accusati di aver provocato la fine del governo Draghi. “Il centrodestra ha colto un’occasione. E l’ha fatto perché non avrebbe potuto presentarsi alle urne, in una campagna elettorale, come raggruppamento di tre forze politiche coalizzate, ma di cui due al governo e una all’opposizione. Conte è stata la levatrice”. Nell’aula del Senato il discorso di Draghi è parso particolarmente duro, ne aveva “piene le tasche”. “Draghi si è preoccupato del programma di governo, non delle alchimie parlamentari. Il suo è stato un discorso orgoglioso e non preoccupato di questo Parlamento debolissimo e morituro, come si scrisse molti anni fa di un altro Parlamento, nonché frustrato. I suoi accenni al largo appoggio di opinione pubblica, portati in Parlamento, sono apparsi come una delegittimazione della rappresentatività del Parlamento, sia pure corretta dall’insistenza sulla necessità di una decisione delle assemblee rappresentative”. Domanda impudente: se le forze del centrodestra le chiedessero consiglio in vista della campagna elettorale, lei che cosa suggerirebbe? “Non credo che mi chiederebbero consigli e non penso di essere la persona più adatta per darli. Visto che me lo chiede lei, insisterei su tre punti: il personale politico, le idee, il radicamento sociale. Il personale politico, perché la destra italiana non è diversa dalla sinistra per il suo carattere composito. Se vuole prepararsi a governare lo stato, deve dotarsi di personale adatto. Poi, le idee, i programmi: riuscire a trovare una versione moderna del nazionalismo, trovare l’equilibrio giusto tra autorità e democrazia, stabilire se vuole allargare il perimetro dello stato o ridurlo. Infine, il radicamento sociale, che comporta anche la scelta dei programmi: vuole dedicarsi ai grandi servizi sociali, la scuola, la sanità, le professioni? Dietro a questi settori vi sono milioni di persone”. Se Meloni fosse la leader più votata, l’incarico di costituire un governo spetterebbe a lei? “L’aspettativa sarebbe quella, ma siamo in una Repubblica parlamentare, il centrodestra è composto di tre parti, ognuna delle tre parti è ampiamente segmentata e frammentata. Non si può meccanicamente attribuire il ruolo di presidente del Consiglio al leader della forza più votata nella coalizione vincitrice”. Quando si evoca un governo di destra, emergono puntualmente alcune questioni: i rapporti internazionali, l’Europa, la tenuta dei conti pubblici, il rischio di una impennata dello spread. Esistono dei “rimedi” per rassicurare gli investitori e i cosiddetti “mercati internazionali”? “Di rimedi ce ne sono molti. Il primo sarebbe quello di dar prova di una buona tenuta dei conti pubblici. Mussolini, quando andò al potere, chiese ad Alberto de Stefani di fare il ministro delle Finanze, e a De Stefani dobbiamo alcune delle innovazioni più importanti del nostro sistema finanziario, tra cui il completamento della struttura della Ragioneria generale dello Stato. Fu De Stefani l’autore della restaurazione finanziaria: mise in ordine i conti pubblici”.