il commento
Berlusconi signore del Senato, la compensazione di un'epoca storica
Il Cav. e le facce compunte degli ipocriti abbagliati dal grande ritorno. Storia preventiva di una vendetta d’appendice degna del Conte di Montecristo
Vedremo come va a finire, ma il ritorno di Berlusconi in Senato per via elettorale, e la sua eventuale elezione a presidente dell’assemblea di Palazzo Madama, dunque seconda carica dello stato dopo il presidente della Repubblica, sarà dies aureo signanda lapillo (giorno iscritto in lettere d’oro) anche per alcuni di coloro che avranno votato a favore delle liste di centrosinistra e contro il centrodestra. Per molti anni, dal 1994 fino al novembre del 2013, quindi quasi dieci anni fa, quando avvenne la vergognosa cacciata dal Senato, una parte di italiani di diversa provenienza e cultura politica si è battuta, pur non avendo a che fare strutturalmente con la coalizione inventata dal Cav., e portata al successo e alla catastrofe più volte nel fuoco della controversia, a favore del “Cavaliere nero”.
La ragione era semplice e comprensibile. Berlusconi era un imprenditore televisivo innovatore, aveva distrutto il monopolio della Rai e inventato la tv privata, e parteggiava per la vecchia Italia dei partiti politici, in posizione filogovernativa. Era l’avversario designato di un establishment chiuso e arcigno, i cui esponenti partecipavano come lui delle condizioni di vita e di operatività di un sistema italiano semi-legale in cui le regole, non solo quelle del finanziamento della politica, erano considerate norme flessibili e spesso aggirate. Comunque si voglia giudicare il fenomeno, è così che si fece e si affermò, insieme con le sue storture e malversazioni, il meglio dello sviluppo e della modernizzazione di un paese agro-industriale uscito a pezzi dalla guerra.
Berlusconi era un ricco, un tycoon, che aveva interpretato nell’edilizia, nella tv e nello sport una parte da star, era di ultima generazione, per così dire, e parteggiava per Craxi e per i suoi alleati del momento, che erano in sostanza le varie anime della Democrazia cristiana. Quando quel mondo crollò, per iniziativa supplente di una magistratura politicizzata e investita della missione nazionale di cambiare il sistema democratico tradizionale della Repubblica, con il conforto ululante di moltitudini sciagurate e incuranti del prezzo che tutti avremmo pagato nella regressione per quella ondata di giacobinismo, Berlusconi entrò in politica in forme decisamente nuove, senza precedenti. Non voleva perdere sé stesso, le sue aziende, il suo blocco di riferimento nordista (Gad Lerner allora parlò di un Reagan della Brianza). Non voleva fare la fine dei Rizzoli e dei Gardini. E in questa impresa si generò una ventennale conflittualità, che prima non si era manifestata ma divampò, non appena il Cav. toccò la cosa pubblica in una posizione reazionaria rispetto alla rivoluzione giustizialista, con l’ala militante della magistratura italiana e con la coorte di establishment e mediatica di fiancheggiamento delle procure.
Alcuni fecero le tricoteuses, si misero sotto al patibolo aspettando che la sua testa cadesse, altri cercarono di difendere un’idea di democrazia politica diversa da quella di Francesco Saverio Borrelli, di Antonio Di Pietro, di Oscar Luigi Scalfaro, di Carlo De Benedetti e di Eugenio Scalfari (così, per semplificare, ma non poi tanto). Quando Berlusconi, tre volte premier per scelta degli elettori in ragione di un maggioritario che egli stesso aveva incarnato varando in questo paese che non l’aveva mai conosciuta l’alternanza di governo.
Quando, scapestrato mattoide di un movimento nato da un’intuizione competitiva e sportiva, incline a battersi contro i colpi bassi restituendoli invece di piegarsi, e essenzialmente uomo privato accerchiato dalle ipocrisie e dalle retoriche virtuistiche e pubbliche in un paese travolto da una ondata fastidiosa, rancida, di comune senso del pudore; quando perse la sua partita politica, fra agguati e trappole di vecchi e nuovi arnesi della politica politicante (Fini, Tremonti e molti altri), fu allora che la bella gente di questo paese, non contenta della vittoria politica, pensò di renderla eterna cacciandolo dal Senato in base a una legge antipolitica che lui stesso aveva voluto per demagogia (Berlusconi ha fatto molto per sé stesso, non lo si può negare, ma anche contro sé stesso, e anche questo è indiscutibile), una legge stupida ma non applicabile retroattivamente secondo diritto.
Tirarono in ballo una sentenza definitiva ma controversa ottenuta, dal primo grado alla Cassazione, grazie all’infaticabile opera del procuratore Fabio De Pasquale, quello che diede parere sfavorevole alla scarcerazione di Gabriele Cagliari perché non aveva confessato il delitto, e di un collaboratore assiduo del Fatto di Travaglio, il dottore Antonio Esposito. Fu un’ingiustizia politica vociante, chiassosa, trucida: le tricoteuses vennero accontentate, la testa cadde, e noi superstiti girondini e foglianti fummo travolti nell’operazione di fiancheggiamento del Re deposto ed esiliato. Grillo commentò che era solo “la fine di un uomo banale” e si apprestò a compiere la sua penosa avventura di squillante nemico della democrazia italiana. I vili si erano accodati alla canea, che poi come sempre travolse anche e soprattutto loro.
Capirete che di fronte a questa storia anche chi si appresti a dare volantini in spiaggia per il Pd e alleati (scherzo), se in questi anni abbia tifato contro il dipietrismo e l’antipolitica blindata che ha rovinato le istituzioni, la vendetta d’appendice del Cav. numero due della Repubblica e signore del Senato, degna del Conte di Montecristo, sarebbe comunque salutata come la compensazione di un’epoca storica, e le facce compunte degli ipocriti abbagliati dal grande ritorno sarebbero un premio rutilante, di fiammeggiante intensità.