Bisogna studiare il Grande Gatsby per capire il populismo del futuro

Marco Percoco

In uno scenario caratterizzato da scarsa mobilità sociale, da salari bassi e prospettive incerte, la frustrazione della classe media è naturale che vada nella direzione di chi, almeno apparentemente, lotta contro questo sistema

Mentre i partiti compongono le proprie alleanze, si è nell’attesa di conoscere i contenuti dei programmi, destinati immutabilmente ad essere lunghe liste dei desideri, troppo arditi, inattuabili o semplicemente inattuati per pigrizia o convenienza politica. E’ in questo quadro di ozio intellettuale che mi sembra sia utile una semplice, quanto radicale, riflessione. E’ molto probabile che la prossima campagna elettorale ripeterà la dinamica della dialettica politica degli ultimi anni, tra accuse di populismo e contro-accuse di elitismo. Nonostante la trivialità di tale “dibattito”, credo sia necessario comprenderne le ragioni popolari, o, meglio, conoscere e interpretare i motivi per cui una fetta potenzialmente larga dell’elettorato italiano ritiene che la propria domanda di azioni politiche possa essere soddisfatta da forze bollate come “populiste”.

 

Nei prossimi mesi, si assisterà a una ridda di ricette taumaturgiche su come non sprecare l’occasione del Pnrr, di come utilizzare nel miglior modo possibile quei finanziamenti, che in massima parte sono debito da rimborsare. Insomma, è lecito attendersi che soprattutto il centrosinistra si sperticherà in mille proposte su come allocare la spesa pubblica, sicuramente necessaria per sostenere la domanda aggregata, ma non certo sufficiente per contrastare la sequenza di shock dell’offerta da Covid e da conflitto in Ucraina. Ma è questa la risposta giusta alla domanda espressa dall’elettorato che guarda con speranza e simpatia alle forze chiamate “populiste” con tono evidentemente sprezzante? Su questo, credo sia bene essere più che scettici, poiché difficilmente si riuscirà a smuovere l’animo della grande periferia italiana, non più abitata dalla classe operaia, ma dalla stremata classe media, quella che si trova a dover fronteggiare salari bassi, prezzi delle case alti e soprattutto una mobilità socio-economica praticamente inesistente.

 

Qualche anno addietro, il compianto economista di Princeton Alan Kruger mise in correlazione la diseguaglianza con la capacità delle economie di trasmettere livelli di reddito di padre in figlio e chiamò questa relazione “Curva del Grande Gatsby”, riecheggiando le note vicissitudini del protagonista del celebre romanzo di Scott Fitzgerald. Immaginiamo una società o un contesto in cui ad un’elevata disparità di reddito corrisponda una forte trasmissione intergenerazionale della capacità reddituale e della ricchezza. E’, questo, il ritratto di una società mummificata, in cui le diseguaglianze si ereditano e si trasmettono, ed è questo il ritratto dell’Italia, insieme ad altri paesi insospettabili, forse, come gli Stati Uniti e il Regno Unito. Spesso con riferimento al nostro Paese, si dice che “l’ascensore sociale si è rotto” ad indicare la recente incapacità del nostro sistema educativo a garantire quella mobilità che dovrebbe essere il motore di una moderna società liberale. Nell’Italia che usciva dalla società feudale del latifondo (il Nord, prima, solo molto dopo, il Mezzogiorno), l’istruzione secondaria e, soprattutto, universitaria dei figli significava per le famiglie un viatico verso il legittimo progresso.

 

Nella celebre canzone di Pietrangeli, la Contessa di turno si scandalizzava perché “anche l’operaio vuole il figlio dottore”. Oggi, l’istruzione è ragionevolmente accessibile, ma la sua utilità è diminuita poiché non garantisce più quella crescita tanto agognata. Negli ultimi decenni, abbiamo visto tante vesti stracciate sull’altare della meritocrazia, ma pare che i risultati siano tardati a venire. Se vi è una chiara trasmissione intergenerazionale delle professioni (notaio, farmacista), di alcuni ruoli della pubblica amministrazione (diplomatico, con la folkloristica levata di scudi delle giovani e blasonate feluche ai tempi della nomina di Calenda all’UE, ma anche, sebbene meno che in passato, il professore universitario), degli immobili nelle aree in cui si gode di una grande accessibilità ai servizi pubblici di qualità, dei ruoli apicali nelle aziende pubbliche ed anche private, la frustrazione della classe media è naturale che vada nella direzione di chi, almeno apparentemente, lotta contro questo sistema. In un tale scenario stantio, non sorprenda la diserzione dei concorsi pubblici o le richieste salariali giudicate troppo elevate da parte di imprese con produttività colpevolmente bassa, la voglia di ritorno a vite economicamente più modeste, ma socialmente più appaganti, magari lontano dalle grandi città, e finanche, ovviamente, il voto “populista”, che invece rappresenta una domanda di mobilità, di rottura.

 

Non vi è dubbio che il problema dell’Italia siano la crescita, le riforme eccetera, ma non vi è parimenti dubbio che la scarsa fluidità sociale sia un tumore che deve essere curato ed infine rimosso. Ben venga la liberalizzazione dei taxi, ma ai fini da mobilità socio-economica sfugge il motivo per cui la si ritenga più urgente rispetto alla riforma delle professioni, come sfuggono i motivi per la mancanza di una seria riforma dei concorsi o anche di un’equa distribuzione sul territorio dei servizi pubblici di qualità, anziché parlare spocchiosamente di “città da 15 minuti”. Con in mente Gatsby, vedremo nella prossima campagna elettorale quanto è largo il fronte che vuole una reale progressione della classe media e quanto, invece, è profondo il partito trasversale dei conservatori illiberali, interessati a preservare sacche di vantaggio perpetuato attraverso le generazioni, sacrificando, paradossalmente, le normali forze di mercato.

Marco Percoco, Università Bocconi

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