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l'intervento

Contro l'inflazione, sacrificare la crescita non è l'unica via. Ci scrive Brunetta

Renato Brunetta

L’aumento del pil italiano, le stime di crescita del Fondo internazionale monetario e il rischio di una Bce appiattita sulla Fed. La versione del ministro della Pubblica amministrazione

"Se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d’oltraggiosa fortuna o prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro fine?”. Il dilemma esistenziale del principe Amleto se sia meglio vivere soffrendo (“essere”) o ribellarsi rischiando di morire (“non essere”) è, metaforicamente, il dilemma di fronte al quale sono posti oggi i banchieri centrali. La domanda alla quale essi devono trovare risposta è la seguente: meglio aumentare i tassi di interesse e indurre (il male di) una recessione, nella speranza che sia di breve periodo, per abbattere l’inflazione; o accettare di convivere con essa, subendola, preservando (il bene della) crescita economica? Noi, a questa domanda, non sappiamo dare una risposta. Ci chiediamo, tuttavia, se, in un mondo così fluido e in totale cambiamento come quello postpandemico, affidarsi alla vecchia cassetta degli attrezzi della politica monetaria, usata per combattere l’inflazione negli anni Settanta, sia la scelta migliore. Se possano valere ancora le ricette del passato per curare le malattie del presente e governare il futuro.

 

Un solo dato di fatto: la crescita sta salvando l’Italia. Il pil è aumentato del +6,6 per cento nel 2021 e va verso il +4 per cento in quest’anno di guerra, inflazione e crisi energetica, con politiche economiche espansive e virtuosità dei conti pubblici. Il rischio è, dunque, che se la Bce si appiattisce troppo sulla strategia di politica monetaria della Fed, sgonfi bruscamente la crescita in corso, che l’Italia aspettava da almeno 20 anni. E il nostro paese sarebbe in buona compagnia in un continente scosso, come non mai, dal conflitto e dalle tensioni sui beni energetici.


Un po’ di storia. Quarant’anni fa, gli Stati Uniti, colpiti da shock petroliferi senza precedenti e da un aumento dei prezzi che aveva toccato la doppia cifra, decisero di usare il pugno duro per combattere la recrudescenza inflazionistica.

 

Nel secondo trimestre dell’anno, gli Usa sono entrati in recessione tecnica, primo effetto della stretta monetaria

 

L’allora presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, decise una serie di drastici aumenti dei tassi per sgonfiare la domanda di beni e servizi e riportare così i prezzi a livelli accettabili. Fu ciò che avvenne, ma al costo di una recessione economica. Oggi il successore di Volcker, Jerome Powell, sembra voler ripercorrere la stessa strada, lanciando un vero e proprio “whatever it takes” dei tassi d’interesse, che, in soli due meeting della Fed, sono stati aumentati di ben 1,5 punti percentuali. Il primo effetto di questa stretta monetaria lo abbiamo già visto: nel secondo trimestre dell’anno, gli Stati Uniti sono entrati in recessione tecnica. 

 

Gli economisti sono, però, oggi divisi sul fatto che il prezzo da pagare per combattere l’inflazione debba essere una recessione. Perché, a guardar bene, dopo questi quarant’anni il mondo non è più lo stesso: l’economia si è profondamente globalizzata, petrolio e gas non rappresentano più le uniche fonti energetiche dalle quali attingere e anche l’offerta di queste due materie prime è cambiata. I policy maker hanno, poi, definitivamente compreso che inseguire l’inflazione tramite un aumento dei salari è dannoso e controproducente, ragion per cui c’è una totale resistenza a indicizzazioni automatiche. Anche le politiche monetarie sono, nel frattempo, cambiate. Le banche centrali hanno imparato a utilizzare il loro bilancio come strumento per migliorare la trasmissione degli stimoli monetari all’economia reale, in sostituzione della leva dei tassi d’interesse.

 

E in Europa che sta succedendo? La Bce, con le decisioni prese lo scorso 21 luglio, ha virato verso una posizione di politica monetaria più restrittiva rispetto a quella espansiva assunta nell’ultimo decennio, basata, soprattutto, sullo strumento dell’allentamento monetario. Fin qui ci sta, ma l’inizio del processo di normalizzazione della sua politica monetaria, che prevede l’inasprimento dei tassi di interesse con l’obiettivo di domare l’alta inflazione che sta investendo l’eurozona, rischia di produrre, come effetto collaterale, sia recessione, sia frammentazione del mercato dei titoli di stato sovrani, data la natura della nostra moneta unica.

 

Per effetto di questa frammentazione, i paesi più indebitati dell’eurozona potrebbero, infatti, subire un ampliamento significativo dei propri spread rispetto a quelli dei paesi ritenuti finanziariamente più stabili. Una forbice che non necessariamente sarebbe giustificabile dai fondamentali macroeconomici, come recentemente ricordato dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco


Questo rischio di frammentazione è particolarmente elevato nei paesi ad alto debito pubblico e al modo in cui viene valutata la sostenibilità dello stesso. Qui entriamo nel campo della discrezionalità dei modelli predittivi e della capacità di stimare l’andamento dell’economia nel lungo termine.

 

Nell’ultimo Rapporto sulla sostenibilità dei bilanci pubblici degli stati membri, recentemente pubblicato dalla Commissione europea, ad esempio, il rapporto debito/pil italiano, secondo lo scenario base, non scenderebbe mai sotto la soglia del 145 per cento nei prossimi anni; anzi, dal 2026 tornerebbe a crescere fino a salire oltre il 160 per cento nel 2032. Lo scenario sembrerebbe, però, troppo pessimista e contraddittorio rispetto alla valutazione positiva sull’attuazione del Pnrr che la stessa Commissione ha sempre avuto sugli effetti benefici per l’Italia, in termini di crescita strutturale del pil. Nella simulazione, infatti, è come se Bruxelles avesse implicitamente ipotizzato che l’effetto delle riforme e degli investimenti concordati e contenuti nel Pnrr sia pari a zero sulla crescita di lungo periodo dal 2026 in poi. A parità di altre condizioni ed escludendo eventi totalmente imprevedibili, noi crediamo, invece, che la completa attuazione del Pnrr, volta a risolvere i problemi strutturali che hanno condizionato il nostro paese negli ultimi decenni, trasformi, ammodernandolo, il suo tessuto economico, produttivo e sociale. E che, quindi, lo allontani definitivamente dai tassi di crescita da “zero virgola” che lo hanno caratterizzato negli ultimi decenni. Con effetti benefici sulla riduzione del rapporto debito/pil.

 

Per limitare gli aumenti asimmetrici e sproporzionati degli spread tra i titoli sovrani, che potrebbero mettere a rischio l’ordinata trasmissione della politica monetaria, la prima linea di difesa messa in campo dalla Bce è la flessibilità sui reinvestimenti del programma di acquisto Pepp (Pandemic Emergency Purchase Program). La seconda linea di difesa è l’introduzione di un nuovo strumento, il Transmission Protection Instrument (Tpi), che accompagnerà la fase di normalizzazione dei tassi di interesse, assicurando la stabilità dei prezzi e l’esistenza stessa dell’euro. 


Il Tpi non è un assegno in bianco, pronto per essere staccato senza se e senza ma. Tra i suoi criteri di attivazione e di eleggibilità vi è l’aderenza del paese beneficiario alle Country Specific Recommendations della Commissione europea. Inoltre, a differenza dei programmi straordinari di acquisto di titoli di stato del recente passato, inclusi quelli pandemici del Pepp, questo strumento è creato su base permanente e con un ammontare di risorse illimitato, sempre a disposizione della Banca centrale.

 

In tal senso, il Tpi costituisce un rafforzamento del ruolo della Bce e della sua politica monetaria, in attesa che essa sia accompagnata da una vera e propria unione di bilancio.
Da una prima analisi, l’impressione è quella che il Tpi sia stato pensato non soltanto come uno scudo protettivo per i paesi più deboli della zona euro, ma anche e, forse di più, come una moral suasion affinché questi continuino a gestire virtuosamente le proprie finanze pubbliche e a completare il processo avviato di riforme strutturali frutto dei Pnrr nazionali. L’Italia lo sta già facendo. Quindi, il nostro paese al momento non ne ha bisogno. E’ la crescita l’unica medicina ai nostri guai storici.

 

Lo scenario per la riforma delle regole di bilancio europee è profondamente cambiato: dalla guerra alle materie prime

 

Tutto questo avviene mentre la riforma del Patto di Stabilità e Crescita (Psc) sembra essere congelata. Il Patto, lo ricordiamo, è stato sospeso fino al 1° gennaio 2024 per effetto della general escape clause e nessuno sa ancora dire con quali regole si ripartirà da quella data in poi, considerando che la proposta di revisione che dovrebbe presentare la Commissione europea non è ancora pronta. L’attesa è per il mese di settembre, quando la Commissione dovrebbe presentare le sue prime proposte legislative. Nelle more, è opportuno ricordare che – rispetto all’ultima consultazione pubblica riaperta nell’ottobre 2021 e conclusa a dicembre dello stesso anno – lo scenario di riferimento della riforma delle regole di bilancio europee è profondamente cambiato: la guerra in Ucraina; un’inflazione che da “temporanea” si è progressivamente consolidata su un orizzonte temporale di più lungo termine; le strozzature nei mercati delle materie prime e la connessa esigenza di una politica di autonomia di bilancio europea volta a finanziare “beni pubblici europei”. Anche per questa partita i vecchi pensieri e le vecchie proposte sembrano non più sufficienti.

 

Come si vede, c’è molta carne al fuoco e per questo occorre non solo un maggior coordinamento tra le istituzioni europee e i governi, ma soprattutto la presenza attiva di esecutivi europeisti capaci di dare un forte impulso al processo di costruzione della nuova Europa. Vale anche, e a maggior ragione, per l’Italia che con l’esperienza del governo Draghi ha riacquistato credibilità internazionale e leadership europea. Un patrimonio che non possiamo permetterci di sprecare.

 

Le stime di crescita del pil italiano per il 2022 secondo il Fmi: +3,0 per cento, 0,7 punti in più delle previsioni di aprile

 

A riprova del fatto che la strategia dell’essere virtuosi nella gestione della finanza pubblica e la volontà riformista pagano sempre, basti ricordare che il Fondo monetario internazionale ha alzato, la settimana scorsa, le stime di crescita del pil italiano per il 2022 al +3,0 per cento, ossia 0,7 punti percentuali in più rispetto al +2,3 per cento previsto in aprile. Stime che sono già da aggiornare al rialzo dopo che l’Istat ha previsto un tasso di crescita del pil nel secondo trimestre pari al +1 per cento e, conseguentemente, una crescita acquisita per il 2022 pari al +3,4 per cento. Una revisione importante, se si pensa che l’Italia è, al momento, il paese del G7 con la più alta crescita del pil stimata per il 2022, meglio di Germania e Francia e sicuramente meglio degli Stati Uniti, già entrati in recessione tecnica. In Europa, dunque, sembra che i rapporti di forza tra le economie si stiano invertendo. Il sud sta facendo il nord.

 

Inoltre, stando sempre alle previsioni del Fmi, sembrerebbe che l’inflazione abbia ormai raggiunto il suo punto di massimo e che abbia, in Italia, imboccato un percorso di graduale discesa che la porterà dal 6,7 per cento stimato per il 2022 al 3,5 per cento stimato per il 2023. A sostegno di queste stime ci sono già primi segnali incoraggianti sui prezzi delle commodities. Il petrolio, infatti, dal picco di 120 dollari al barile dello scorso mese di maggio è sceso sulla soglia dei 95 dollari (ritenuta chiave dai trader) e potrebbe scendere ulteriormente nelle prossime settimane. Anche il prezzo dei cereali sta drasticamente calando dai picchi dello scorso maggio, grazie anche allo sblocco dei porti ucraini.

 

Buone notizie all’orizzonte, ma la virtuosità va mantenuta costante. Ce lo ha ricordato subito l’agenzia di rating Standard and Poor’s che ha abbassato l’outlook dell’Italia da “positivo” a “stabile”, motivando il downgrade sulla base dell’aumento del rischio di non completare le riforme per effetto della fine anticipata della legislatura e del pericolo dell’avvento di un nuovo esecutivo che si distacchi pericolosamente dall’agenda riformista del governo Draghi. 

 

L’aumento dei tassi funzionava negli anni 70, non è detto che funzioni oggi, così come la “forward guidance”

 

Torniamo al dubbio iniziale. In questo quadro, un aumento dei tassi di interesse eccessivo e mantenuto costante nel tempo, realizzato secondo lo schema della vecchia cassetta degli attrezzi dei banchieri centrali, potrebbe non essere la soluzione, perché potrebbe rivelarsi un pericoloso sedativo alla crescita economica. Funzionava negli Stati Uniti degli anni Settanta, non è detto che funzioni oggi. Così come non è detto che funzioni oggi lo stile di comunicazione (forward guidance) che è stato molto efficace in passato in un ambiente economico caratterizzato da una bassa e stabile inflazione. Potrebbe essere meglio, invece, lasciare alla fisiologia del mercato, coadiuvata da un approccio gradualista di politica monetaria che accompagni l’evoluzione dei dati macroeconomici, la capacità di riequilibrare naturalmente i prezzi, anziché abusare di strumenti vecchi per calmierare l’inflazione. Forse, anche per le politiche monetarie, occorrono pensieri mai fatti davanti a fatti mai visti.

 

Insomma, perché dare anche all’Eurozona, con tutte le sue peculiarità e tutti i suoi guai, le stesse medicine che somministra la Fed? Cambiamo paradigma, evitiamo di bloccare la crescita in atto se è virtuosa (per l’Italia, ma non solo) a livelli che non vedevamo da decenni. E valutiamo, senza paura, se sia possibile convivere con un’inflazione che già dà segni di sgonfiamento, procedendo sul sentiero delle riforme nei singoli paesi e in Europa. Con determinazione e una sana dose di audacia. E’ sempre Shakespeare a ricordarcelo: “Il coraggio lievita nell’emergenza”.

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