L'ultimo atto dell'èra Draghi è un decreto per dare un futuro all'Ilva
Il governo in Consiglio dei ministri autorizza un investimento pubblico di un miliardo per gli stabilimenti di Taranto. L'obiettivo è effettuare le manutenzioni e aumentare la produzione
Taranto. “Il governo intende riportare l’Ilva a quello che era quando era competitiva, la più grande acciaieria d’Europa, non possiamo permetterci che non produca ai livelli a cui è capace di fare”. Lo aveva detto il presidente del Consiglio Mario Draghi, che ieri ha ribadito il concetto nell’ultimo decreto della sua èra. Con una norma di cui né azienda né ministri conoscevano il testo fino alla pubblicazione, il Consiglio dei ministri ha autorizzato un investimento pubblico di un miliardo per l’Ilva, attraverso un aumento di capitale da parte di Invitalia.
Da mesi tutte le parti coinvolte chiedevano un intervento finanziario per superare la pesante crisi di liquidità che impediva all’azienda di acquistare le materie prime ed effettuare le manutenzioni necessarie per l’aumento della produzione. L’azienda infatti attualmente viaggia sui 4 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, molto lontano dagli 8 milioni fissati come punto di equilibrio finanziario e occupazionale, ma anche dai 6 milioni attualmente autorizzati fino al 2023. Nonostante questo, il management è riuscito a riportare i conti in equilibrio tenendo gli impianti a mezzo servizio, i lavoratori in cassa integrazione e usando i fornitori come finanziatori. Una strategia molto lontana da quella immaginata da Draghi, che è soprattutto dovuta a due intoppi.
Sono passati dieci anni dal sequestro giudiziario dell’area a caldo dell’Ilva, cui seguì quello dei prodotti finiti e di 8 miliardi dai conti della famiglia Riva: in dieci anni sette governi hanno deciso prima di espropriarla, commissariarla, metterla a gara, venderla, poi mezza statalizzarla. Da allora l’area a caldo è ancora sotto sequestro. Questo rappresenta tecnicamente una sospensiva alla vendita definitiva, nonché all’aumento della quota societaria di Invitalia, ma soprattutto agli investimenti su impianti bloccati dai sigilli della procura. Dall’altra parte ci sono il sindaco di Taranto e il presidente della regione Puglia che, nonostante il Mite con le autorità preposte ai controlli certifichi da anni il rispetto delle norme ambientali e sanitarie, continuano a chiedere la chiusura degli impianti e a ostacolare ogni tentativo aziendale e politico di investimento (impugneranno il decreto Draghi come fecero con quello di Calenda?).
Eppure ArcelorMittal grazie all’amministratore delegato Lucia Morselli ha investito fin qui 1,8 miliardi, di cui la metà solo per il piano ambientale tra i filtri e le coperture dei parchi minerari. Il guaio, come ha spiegato il segretario generale della Uilm Rocco Palombella, è che “ora siamo nel paradosso che le condizioni ambientali sono migliorate ma la fabbrica non marcia perchè l’esposizione finanziare non consente l’acquisto di materie prime. Le risorse disponibili sono state tutte investite nella parte industriale sotto sequestro, soldi e interventi per cercare di rispettare le prescrizioni e provare a dissequestrare l’area a caldo. Invece non sono stati realizzati per esempio sulla laminazione. Con il risultato che i primi restano sotto sequestro e gli altri restano fermi”.
Tra questi ad esempio c’è Afo5, l’altoforno più grande d’Europa, che secondo il piano voluto da Conte, Gualtieri e Arcuri doveva procedere a revamping e invece non si capisce perché sia ancora fermo. Il governo Conte infatti, quando dopo aver tolto lo scudo penale e annunciato la “causa del secolo” contro Mittal decise di diventare suo socio, dimenticò di finanziare l’investimento per il piano industriale. E nulla è previsto dal Pnrr. A oggi, a fronte delle garanzie del privato, da ultimo 300 milioni la scorsa settimana per il gas, Invitalia ha sborsato solo 400 milioni per l’ingresso in società. Insufficienti per il piano industriale attuale a tre altoforni da realizzare entro il 2025, e ancor di più per quello di decarbonizzazione da 5 miliardi in dieci anni presentato dal presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè. Con il decreto di ieri Draghi ha messo chi gli succederà a Palazzo Chigi nelle condizioni di operare in continuità con i piani . Nella speranza che il prossimo governo non fermi tutto ancora una volta.