Guido Crosetto durante un evento pubblico (Ansa) 

l'intervista

Cosa vuol dire un patto con gli avversari. Crosetto ci spiega la destra del futuro

Claudio Cerasa

Che fine farà il Pnrr? Che futuro c’è per Draghi? Che posto c’è per l’agenda dei doveri? Che errori sta commettendo la coalizione di centrodestra? Chiacchiere a ruota libera con il gemello diverso di Giorgia Meloni

Un duello con Crosetto, Crosetto, Crosetto, Crosetto. Ma chi è Guido Crosetto? Cosa pensa? Dove vuole andare? Via Nazionale, Roma, sede della Fiad, la Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza. Lo studio di Crosetto, che della Fiad è presidente, si trova qui, a pochi metri dal Quirinale, al secondo piano di un palazzo giallo ocra che si trova a metà strada tra i palazzi della politica e quelli di Bankitalia. Crosetto, Crosetto, Crosetto. Ma chi è Guido Crosetto? Cosa pensa? Cosa vuole? Abbiamo passato un’oretta insieme con lui, nel suo ufficio, circondati da modellini di aerei, da targhe dell’Aeronautica e dipendenti il cui volto è nascosto dalle mascherine. Crosetto, che si è dimesso da parlamentare nel 2019 e che da tempo è il già coordinatore della segreteria di Fratelli d’Italia, “io e Giorgia siamo una cosa sola”, ci riceve gentilmente dopo un rapido scambio di messaggi. Gli chiediamo: hai un secondo? Ci risponde: sì. Gli chiediamo: puoi ora? Ci dice: ok. Breve sgommata in monopattino e ci presentiamo da lui.

 

Crosetto ci fa accomodare su una delle due poltrone di fronte alla sua scrivania e ci chiede di pazientare un attimo. E’ al telefono. “No, no, no: il ministro non lo faccio, vi prego, basta chiedermelo”. Chiude. Risponde a un messaggio. Un rapido sguardo alla sua scrivania. Cartelline sparpagliate. Dossier su dossier. In giro si intravede un logo di Tim. Poi un logo Enel. Poi un opuscolo della regione Toscana. Alcuni libri sulla giustizia. Crosetto poggia il telefono e si mette comodo. “Direttore, che te serve?”, chiede con un accento piemontese addolcito da una forzatura di romanità. “Una chiacchierata, pochi minuti, rapida, personale. Per capire, per far capire. Facciamo?”. “Ma ora?”. “Ora”. “Facciamo, ok, ma ho poco tempo. La rivediamo?”. “La rivediamo”. “Andiamo”. Cominciamo da lì.

 

Ma chi è Guido Crosetto? E se Crosetto dovesse raccontare la sua storia da dove comincerebbe? Crosetto sorride: “Veramente la sto già raccontando in un libro, che ho iniziato sei mesi fa per Piemme”. E la storia dove comincia? “Comincia dalla fine. Comincia dalle mie dimissioni alla Camera. Comincia da una caratteristica precisa della mia vita: un percorso che si intreccia sempre con la politica, ma dove la politica non è il centro di tutto. Accanto alla politica c’è tutto il resto. La mia vita professionale. La mia vita da imprenditore. La mia vita in famiglia. La politica è una professione, ma avere professioni fuori dalla politica aiuta chi fa politica a capire cosa c’è fuori dai palazzi. A capire cosa c’è nella testa delle persone e delle imprese. A capire, viaggiando all’estero, cosa manca all’Italia, per fare un salto nel futuro”.

 

La prima volta che la politica ha incrociato Guido Crosetto? “E’ stato nel movimento giovanile della Democrazia cristiana. Dove indovinate all’epoca chi ho conosciuto?”. Ci sarebbe l’imbarazzo della scelta. “All’epoca, con me, militavano Enrico Letta, Simone Guerrini, Lapo Pistelli. Quando Guerrini, che oggi è uno dei consiglieri di Sergio Mattarella al Quirinale, divenne coordinatore nazionale dei giovani Dc io ero coordinatore in Piemonte. Siamo della stessa generazione, anche se lo so cosa sta pensando, che sembro più vecchio! Invece no e infatti il mio figlio più piccolo ha 7 anni”.  Sorrisi. E poi, dopo, il percorso, lento, prima di diventare quello che secondo molti oggi Crosetto è: il primo cavaliere alla tavola rotonda di Giorgia Meloni. Dice lui: un po’ Parsifal, un po’ Lancillotto e un po’ Merlino.

 

“Alla politica, in verità, arrivo per insistenza di un prete, fratel Igino, che dirigeva un pensionato universitario dove risiedevo mentre facevo l’università. All’epoca, mi presentò un ragazzo che era nel movimento giovanile della Dc: Roberto Rosso. Iniziò così, dal basso. Poi diventai sindaco di un comune vicino Cuneo, Marene, dal 1990 al 2004. Sempre gratis, zero emolumenti o rimborsi, vivevo della mia attività professionale. Poi, dopo qualche anno, mi presentai come candidato alla presidenza della mia provincia: mi convinse Claudio Scajola. Era il 1999. Non fui eletto come presidente ma feci, anche qui gratuitamente, il capogruppo dell’opposizione in provincia. Due anni dopo Forza Italia mi candidò alla Camera ed entrai in Parlamento. Un po’ di qua e un po’ di là. Ma sempre quello sono: un imprenditore che prova a mettersi al servizio delle istituzioni”. 

 

Imprenditori, ecco. Se Crosetto dovesse individuare le tre priorità degli imprenditori nei prossimi anni, quali sceglierebbe? “Chiunque faccia impresa ha bisogno di stabilità. Se io imprenditore ho paura del futuro non spendo, non compro, non investo. Vale per chi fa impresa e vale anche per le persone comuni, per i consumatori. Senza avere certezza sul futuro, c’è la certezza che l’Italia non avrà la forza di andare avanti”. Crosetto, in sostanza? “Come in sostanza? E’ facile. L’Italia ha uno dei peggiori humus al mondo per fare impresa. Non solo perché è un paese che ha una burocrazia che non funziona, che soffoca, che non produce risultati. Non solo perché ha una tassazione troppo elevata, complicata, che asfissia. Non solo perché mancano le infrastrutture materiali e immateriali capaci di supportare la crescita del paese. Ma perché, purtroppo, ogni imprenditore sa che nessun governo, negli ultimi anni, negli ultimi decenni, è riuscito a dare la certezza di poter lavorare, anche rispettando tutte le leggi, senza essere soggetto ogni giorno a una contestazione discrezionale, schiavo di un sistema burocratico e giudiziario che tende a usare in modo nocivo la sua discrezionalità. Ditemi voi un altro paese in cui si possono trovare casi come l’Ilva, in cui lo stato indica delle prescrizioni precise e un altro pezzo dello stato, la magistratura, dice che non vanno bene e ti chiude l’azienda, perché ha deciso di esercitare un potere di supplenza sulla politica industriale del paese. Ditemi voi un altro paese in cui le regole vengono fatte e disfatte alla velocità della luce, come per il bonus ‘110 per cento’ (misura che non ho mai condiviso), che è stato stravolto in corso d’opera, costringendo chi aveva attinto a quel bonus a ritrovarsi in una situazione di incertezza, di incapacità di programmazione del futuro. Oppure pensate all’assurdità di uno stato che ti fa fallire perché non ti paga per anni, ma ti uccide se tardi un mese a pagarlo. L’Italia è un paese straordinario, sono contrario alla logica del paese che va a rotoli, ma l’Italia, per quel che riguarda la sua affidabilità nei confronti delle imprese e delle attività economiche, deve essere ricostruita da zero”.

 

Per essere affidabile, però, un paese deve anche mostrare di aver ben chiara qual è l’agenda dei suoi doveri. E oggi affidabilità, per l’Italia, significa soprattutto un concetto: rispettare i contratti, adattarsi ai vincoli, non violare il Pnrr, continuare a portare avanti le riforme sottoscritte con l’Europa. “Vede in giro qualcuno che non vuole rispettare gli impegni? Non mi pare. Vede in giro qualcuno che vuole rimettere in discussione patti già sottoscritti? Non mi sembra. Il problema, se mi consente, è diverso. Quel che ho visto finora sulle riforme legate al Pnrr è che l’Italia si è impegnata a fare riforme che al momento esistono solo sulla carta, purtroppo. Ricorda cosa diceva Vujadin Boskov, mitico allenatore della Sampdoria? Rigore è quando arbitro fischia. Bene. Per le riforme vale lo stesso: riforma c’è quando risultato si vede. Mi vuole dire che la velocità della Pubblica amministrazione, grazie alle riforme è migliorata? Mi vuole dire che i processi penali o civili sono o stanno per cambiare? Mi vuole indicare quale comparto dello stato funziona oggi meglio di due anni fa? Vede, il problema del Pnrr non è ciò che c’è nei patti, ma è la scarsa ambizione. Un conto è aver formalmente adempiuto alle richieste europee, un altro conto è dare una scossa vera al paese. La colpa non è di Mario Draghi, di cui ho stima, ma è l’incapacità di una parte della politica e di tutta la burocrazia di comprendere che non basta un ‘visto si stampi’ di Bruxelles per cambiare il paese. Bisogna essere più incisivi, entrare nella carne viva delle procedure, dei processi, delle responsabilità, del potere discrezionale dei mandarini, delle incrostazioni partitiche della Pubblica amministrazione. Capire quali sono gli ingranaggi che non funzionano e sbloccarli. E rispetto al Pnrr, per capirci, il tema non è cambiarlo, ma farlo funzionare, creare risultati tangibili. Le sembra stia succedendo? A me no. E mi lasci aggiungere due cose. Le sembra normale che uno strumento concepito due anni fa abbia conservato le stesse tempistiche che erano state fissate prima della guerra in Ucraina? La burocrazia di Bruxelles non si è accorta che è cambiato il mondo e magari servirebbe un po’ di elasticità nel rispetto di alcune scadenze. O no? Non dico molto, alcuni mesi. Seconda questione. Il Pnrr non è un regalo. La parte principale ci viene prestata (garantita da noi stessi) e dobbiamo restituirla con gli interessi!”.

 

A proposito di patti e di contratti. Serve un grande patto con le opposizioni del futuro, qualora il centrodestra dovesse vincere le elezioni, per migliorare i contratti sottoscritti con l’Europa? “Serve anche questo, certo. Ma serve soprattutto capire un concetto preciso. Chiunque vincerà le elezioni non potrà pensare di vincere e di governare contro qualcuno, trasformando la contrapposizione politica nell’essenza della sua identità di governo. Non può funzionare così. Non deve funzionare così. La logica dei Guelfi contro i Ghibellini è tossica. Chiunque vincerà dovrà trovare un modo per aprirsi, per non chiudersi nel proprio recinto”.

 

Che in concreto vuol dire? “In primo luogo, come ripete spesso Giorgia, bisogna avere una classe dirigente all’altezza che in Italia esiste ma è spesso mortificata. Di avere un progetto concreto, basato sull’agenda dei doveri necessari più che sull’agenda dei sogni impossibili. Un progetto capace di coinvolgere i migliori tecnici, non con l’obiettivo di mettere la politica nelle mani dei tecnici ma con l’obiettivo di mettere le migliori competenze a disposizione nelle mani di una visione politica, un progetto di polis, renderli strumenti di un progetto a medio lungo termine, di una programmazione. Per troppo tempo, la parola sistema ha coinciso con uno stigma, con un elemento negativo, con una paura da rimuovere. Io dico che l’Italia deve tornare a fare sistema. Dico che è assurdo che il presidente del Consiglio di un grande paese come l’Italia non faccia come Emmanuel Macron e non riunisca una volta al mese tutti gli amministratori delegati di tutte le maggiori aziende italiane, facendo sistema, sinergia, confrontando idee”.

 

Che cosa teme Crosetto di questa campagna elettorale? “Mi fa paura l’odio che deriva dall’ideologia. Mi fa paura il fatto che ci sia una parte del paese così profondamente ideologizzata da considerare questa campagna elettorale come una guerra, guerra civile, in cui bisogna uccidere il nemico, fargli male. Negli ultimi due anni si sono create sacche di cittadini anti sistema, anti istituzionali per superficialità. Alcune scelte fatte durante la pandemia hanno spinto una parte dei cittadini italiani a considerarsi di serie b, discriminati. Questo gruppo sociale si è sentito trattato come un nemico e lo è diventato. Penso alla variegata galassia no vax, no green pass che poi abbiamo visto spesso coincidere con spinte diverse, con istanze filorusse. Dall’inizio ho provato a dire che sarebbe stato un gravissimo errore. Ora bisogna stare attenti a non alimentarle e bisogna essere in grado di governarle, rimarginando le ferite che esistono. Così come bisogna stare attenti a usare alcune parole, alcuni concetti, che potrebbero creare una mobilitazione pericolosa, non politica, contro leader che oggi vengono identificati più o meno come se fossero i discendenti diretti di Adolf Hitler”.

 

Pensa a Meloni? “Penso a lei, più democratica della maggior parte dei politici che è stata al governo in questi anni e penso anche ad altro”. A cosa? “Penso a quella piccola parte della magistratura ideologizzata e del giornalismo d’assalto che considera questa campagna elettorale come una chiamata alle armi finale contro il centrodestra. E penso a tutti coloro che oggi, fuori dalla politica, stanno dimostrando di essere disposti a fare qualsiasi cosa pur di vincere la loro guerra. Un giorno, a tempo debito, racconterò cosa sta accadendo in questi mesi, cose gravi che non voglio vengano usate in campagna elettorale. Ricordatevi però: c’è gente disposta ad arrivare a qualunque livello pur di fermare l’avversario. Perché se il livello dello scontro diventa questo, tutto può succedere”.

 

Insistiamo con Crosetto ma lui nulla. E allora vale la pena avventurarsi in un’altra storia, in un’altra domanda: quali sono, oggi, i limiti del centrodestra? “Ah beh, da dove cominciamo?”. Cominci lei. “Un limite, certo, è che qualcuno nel centrodestra non ha capito bene in che contesto viviamo e affronta la campagna elettorale come se vivesse nel 1990 o nel 2000. Non si può pensare di promettere, promettere e promettere. Non si può pensare, dopo tutto quello che abbiamo visto, di governare con gli slogan, promettendo più debito pubblico, promettendo cose che non si possono realizzare. La politica è in una fase nuova. Non la definirei della responsabilità, la definirei, semmai, dello studio, del lavoro, della necessità di farsi in quattro per governare l’Italia, senza pensare di usare il governo come un taxi per incrementare il proprio consenso. Chiunque voglia andare a fare il ministro deve mettere in conto che le condizioni future dell’Italia renderanno compatibili con l’azione di governo solo persone disposte a stare dieci o dodici ore al giorno sui dossier, al lavoro. Solo persone disposte a governare impegnandosi più negli atti legislativi che nelle attività sui social. Recuperare il senso delle istituzioni, per quel che mi riguarda, significa questo. E in questo, me lo consenta, Giorgia Meloni è unica e imbattibile”. 

 

Ci sta dicendo che se il centrodestra dovesse andare al governo non governerà seguendo un approccio sovranista? “I sovranisti hanno a cuore la patria e avere a cuore la patria non significa ignorare quello che accade fuori dalla nostra patria, con cui bisogna fare i conti. E guardi che persino i ‘sovranisti’ sanno che un paese che ha un debito pubblico come quello che ci ritroviamo dovrà sempre fare tutto il necessario affinché questo venga emesso sul mercato a prezzi sempre più bassi, non prezzi sempre più alti, cioè mantenendo uno spread inferiore a 200. Conoscere qual è il perimetro della sopravvivenza finanziaria dell’Italia è un dovere inderogabile. E chiunque conosca quel perimetro sa che un paese come l’Italia deve avere all’interno della sua agenda dei doveri anche un dialogo serio e costante con la Banca centrale europea. Punto”. 

 

E’ un dovere anche il dialogo tra avversari? “Lo è. Penso per esempio a Giorgia e a Enrico Letta, che pur nelle differenze di vedute hanno un rapporto serio, e mentre penso a questo mi dico anche che mi auguro che il clima resti questo, un clima positivo, non offensivo, di lotta ma di rispetto. Anche se resto convinto che per svelenire il clima un Carlo Calenda sarebbe stato più utile a metà tra i due poli, non all’interno di un polo. E lo dico perché in quel ruolo avrebbe probabilmente dato un contributo a rappresentare elettori che oggi faticano a identificarsi nei due poli e che sono alla ricerca di una nuova identità. E lo dico perché in quel ruolo sarebbe stato uno sprone positivo per tutti, per il centrodestra e per il centrosinistra, a migliorarsi, a far alzare l’asticella della sfida, a non fossilizzarsi sulla campagna comunisti contro fascisti”.

 

E invece alla fine la sfida sarà quella: europeisti convinti contro europeisti poco convinti. O se vogliamo essere meno sportivi: tra “amici di Putin e Orbán” e “venduti agli interessi della grande finanza straniera”. “E chi sarebbero gli europeisti poco convinti?”. Crosetto, secondo lei? “Direttore, ma di quale Europa parla? Perché se mi parla dell’Europa che ha provato a far morire la Grecia, io da quell’Europa non mi sento rappresentato. Se mi parla invece dell’Europa che ha messo insieme il Pnrr, che ha unito le sue forze per affrontare le difficoltà, io da quell’Europa mi sento più tutelato e da quell’Europa posso anche sentirmi chiedere una qualche cessione se migliora la vita dei cittadini. Perché vede, caro direttore, i sovranisti non hanno un problema con la cessione di sovranità, tout court. Hanno un problema quando la sovranità che viene ceduta viene offerta all’Europa senza capire dove si vuole andare, se viene ceduta e gestita nell’interesse di altri stati che non cedono la loro ma vogliono espanderla”.

 

Vale anche per l’immigrazione? “Qui me lo dica lei: secondo lei ha senso cedere sovranità a un’istituzione che ha mostrato di non avere idea di come governare il fenomeno dell’immigrazione? Le pare normale che di fronte a un fenomeno epocale e strutturale come le migrazioni dall’Africa sia possibile ragionare con logiche e misure straordinarie e non con nuovi strumenti ordinari? Il problema non è la barchetta che arriva in Italia, il problema è capire nelle mani di chi si trova il rubinetto che governa l’immigrazione nel Nordfrica. Il problema è essere credibili fino in fondo nella sfida contro russi, cinesi e turchi e capire che affrontare un fenomeno epocale con mezze misure significa rinunciare a governare il fenomeno. Per essere chiari. Il tema delle migrazioni è un tema che non si può affrontare nemmeno in sede europea, ma deve essere affrontano in sede Onu. E deve essere affrontato prima di tutto laddove la migrazione nasce, prima ancora che laddove la migrazione arriva. E in questo contesto la sovranità dell’Italia non deve coincidere con l’idea di alzare muri, ma con l’idea di indicare una direzione, ampliando per esempio la visione politica estera che abbiamo avuto finora e offrendo soluzioni concrete, non slogan senza futuro”.

 

L’Italia ha bisogno o no di più immigrati? “Lei sa che in molti settori serve più immigrazione legale? Non è una questione ideologica, è una questione pratica, pragmatica. I decreti flussi sono importanti, le imprese lamentano una manodopera (spesso ultraspecializzata) che manca, anche qui in modo strutturale, e mi auguro che le richieste degli imprenditori vengano esaudite. Poi me lo faccia dire, quelli che fino a oggi si sono puliti la coscienza con le ‘porte aperte’ non si sono mai presi la briga di occuparsi di ciò che accadeva una volta che dalla porta si era entrati. Si sono accontentati di lucrare con le cooperative e nessuno ha mai parlato di integrazione. Aprire le porte senza porsi il tema di integrare le persone che accogli significa creare le condizioni per distruggere una nazione”. 

 

La politica estera, già. Possiamo dire che sul tema dell’atlantismo l’agenda Meloni somiglia più all’agenda Letta che all’agenda Salvini? “E’ da sempre atlantista. Ma su cosa, di grazia, Salvini ha altre agende?”. Sulla Russia, per esempio. “Mi risulta che però la Lega in Parlamento abbia sempre votato le risoluzioni per inviare armi all’Ucraina”. Crosetto, ma davvero? “Guardi, io penso che sul tema della Russia sia necessario essere sinceri e non manichei. C’è una Russia del passato e una Russia del presente. Mi vuole dire che i rapporti con la Russia del passato li ha avuti solo Salvini? Le do un indizio: Angela Merkel”.

 

Sono due cose distinte però. Merkel usava la Russia per fare gli interessi della Germania. Salvini usava la Russia per fare gli interessi degli anti europeisti. “Guardi, non vedo posizioni pericolose di Salvini. Al massimo, mi verrebbe da dire, su alcuni dossier si può intravedere una superficialità, ma non una pericolosità. Superficialità non è una critica. E’ una condizione spesso necessaria quando si fa politica. E quando si ha un talento che Salvini ha: annusare l’aria e trasformare l’aria in una proposta politica”.

 

A proposito di aria che tira. Di aria che tira nell’economia. Di aria che tira nelle imprese. Ma lei non sarebbe contento se questo governo si occupasse di risolvere alcuni grandi dossier aperti come Ita, Mps e Tim? “Guardi, ho l’impressione che questo governo, non solo questo, anche quelli precedenti, non abbiano affrontato con la giusta determinazione alcuni dossier. E penso che se il governo avesse voluto chiudere quei dossier li avrebbe già chiusi da tempo. Temi come Ilva o Telecom vanno aperti e chiusi, non lasciati macerare per mesi, anni”.

 

Non ci vorrà dire che un governo che ha invertito la rotta della crescita dell’Italia, contribuendo a portare l’occupazione al suo massimo storico in un momento di crisi di alcuni paesi importanti come la Germania è stato un governo così disastroso. “Sul governo Draghi ho un giudizio preciso. Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo avuto un presidente del Consiglio, stimato, autorevole, ma non abbiamo avuto un vero governo. C’era Draghi e attorno a lui spesso il vuoto. Non direi che è stato un governo dei migliori. Neppure dei peggiori. Direi che è un governo decisamente migliorabile. E se dovessi individuare un difetto in Draghi, uomo dalla straordinaria credibilità internazionale, quel difetto sarebbe dall’essere troppo legato al macro e poco al micro, dall’essere distante dalla realtà, dall’essere poco a contatto con la società. E alla lunga queste distanze si pagano”.

 

Se il centrodestra dovesse vincere le elezioni, è pensabile accettare la prospettiva che Draghi possa dire arrivederci e grazie? “Da settembre in poi chiunque governerà avrà molti dossier difficili da gestire. E avrà un contesto economico difficile da governare. Ci saranno tanti e tali problemi che sarebbe da irresponsabili non chiedere un aiuto a chiunque abbia qualcosa da offrire per aiutare il nostro paese a diventare più grande, più forte, più affidabile”.