colpa del ttp
La gara a chi è meno populista dell'altro in campagna elettorale
“Tutto tranne il populismo” è l’acronimo obbligatorio (ma un po’ furbetto) della corsa al voto. Calenda lo rinfaccia a Letta, il Pd alla destra. E persino Meloni a Salvini: una parolaccia che non piace più. Forse
La colpa è tutta di un acronimo: TTP, tutto tranne il populismo. A poco meno di cinquanta giorni dal termine, la campagna elettorale si presenta complicata, confusa, caotica ma allo stesso tempo, dal giorno successivo alla caduta del governo Draghi, contiene un filo conduttore evidente, trasparente e persino sorprendente che rende le elezioni del 2022 decisamente diverse rispetto a quelle del 2018. Il punto è proprio quello: il TTP, tutto tranne il populismo. Fateci caso. Perché Calenda ha abbandonato l’alleanza con il Pd? Perché non voleva presentarsi in campagna elettorale con una coalizione composta anche da partiti populisti (Fratoianni & Co.).
E cosa ha detto il Pd una volta registrato l’insuccesso della propria operazione cacciavite? Ovvio: che il populista Calenda avrebbe fatto il gioco dei populisti, questa volta quelli di destra. E come hanno reagito i Fratoianni & Co. alla rottura dell’alleanza tra Letta e Calenda? Sempre allo stesso modo: Calenda è un populista di destra e non poteva finire altrimenti. Cosa dice Giuseppe Conte di Carlo Calenda? Chiaro: è un populista. E cosa dice Letta del M5s? Niente alleanze, sorry, se sei contro l’agenda Draghi sei contro l’agenda dell’anti populismo e se non apprezzi quell’agenda in definitiva non sei altro che un dannato populista. E su cosa hanno trovato l’accordo elettorale Letta, Fratoianni, Bonelli e Bonino? Siamo sempre lì: difendere la Costituzione dai populisti che la vogliono distruggere. E cosa dice il centrodestra dei loro avversari del centrosinistra? Siamo ancora lì: ma come fate a fidarvi di un partito che si allea con altri partiti che hanno populisticamente votato contro la Nato? E ancora, cambiando lato, cambiando coalizione, cosa fanno i partiti che sono parte dell’alleanza di centrodestra per provare a rubare consensi ai propri compagni di banco? Ovvio: scommettono sull’essere percepiti come un argine al populismo dei propri alleati.
Con tutto ciò che ne consegue. Meloni fa di tutto per mostrare che il vero populista della coalizione è il suo alleato Salvini (“non è pericoloso, è solo superficiale”, ha detto Guido Crosetto al nostro giornale) e la sua campagna elettorale sembra finalizzata più a mettere in rilievo il populismo del leader della Lega che a mettere in evidenza il populismo degli avversari. Della serie: io sono atlantista, la Lega non so; io sono con l’Ucraina, la Lega non so; io sono per non fare promesse pazze, la Lega non so; io sono per non esagerare con le proposte sulle pensioni, la Lega non so; io sono per non demonizzare l’Europa, la Lega non so; io sono per non scommettere sul modello Le Pen e Orbán; la Lega non so.
E lo stesso, anche se con una forza diversa, succede dentro la Lega, ma con due dinamiche differenti. Da un lato c’è la Lega salviniana che tenta in tutti i modi di farsi percepire come una Lega di governo, disposta cioè a fare sacrifici, come stare al governo con i propri avversari pur di occuparsi del bene del paese, non come quegli sciacalletti opportunisti e populisti di Fratelli d’Italia; dall’altro lato c’è invece la Lega delle regioni che cerca di fare di tutto per far sapere che la Lega vera non è quella rappresentata dal populista Salvini ma è quella rappresentata dai pragmatici governatori di regione, i quali mentre Salvini va populisticamente a Lampedusa a mostrare i muscoli contro gli immigrati ricordano, lo ha fatto sabato scorso Luca Zaia, che gli immigrati servono, che nuova manodopera occorre e che su questo tema, chissà a chi si riferiva Zaia, occorre con urgenza uscire “dagli schemi ideologici”.
E lo stesso ovviamente da mesi fa, o meglio faceva, anche il partito di Silvio Berlusconi, che ha passato gli ultimi anni a costruire attorno al suo partito un certo consenso facendo leva su un concetto preciso: noi siamo popolari, noi siamo europeisti, noi siamo per la scienza, per la competenza, per il garantismo, e noi siamo l’unico argine interno al centrodestra per evitare che il populismo dei nostri compagni di strada possa prendere il largo. E’ tutto così.
È una fuga dal populismo, è una corsa a essere i più puri tra i più puri anti populisti che giustifica alleanze innaturali (Letta e Fratoianni da un lato, Salvini-Berlusconi-Meloni dall’altro: se gli avversari sono populisti e il populismo è il male peggiore ogni mezzo giustifica il fine) che produce anche effetti a metà tra il ridicolo e lo spassoso quando si parla di Draghi. Anche qui, fateci caso. C’è qualcuno che rivendica la caduta del governo Draghi? Ovviamente no. C’è qualcuno che mostra la propria impronta digitale sul draghicidio? Ovviamente no. C’è qualcuno che, in una campagna elettorale giocata sull’anti populismo, ha la forza o il coraggio di ricordare ai propri elettori di essere stato colui che ha mandato a casa Draghi – metaforicamente perché Draghi, con le sue conferenze stampa, sarà a Palazzo Chigi per tutta la campagna elettorale, e anche oltre – assumendosi così la responsabilità di aver combattuto un simbolo dell’anti populismo? Ovviamente no. C’è stato un tempo, lo ricorderete, in cui essere populisti, in campagna elettorale, al governo e persino in libreria, era un brand, uno stile di vita, un marchio registrato, un approccio alla politica utile ad alimentare un piccolo imbroglio, ovvero che i populisti in quanto tali farebbero gli interessi del popolo.
Oggi, invece, quattro anni e mezzo dopo la campagna elettorale più populista della storia, anche i populisti fingono di non esserlo e giocano la propria partita seguendo un altro spartito: quello della non irresponsabilità, quello dell’essere meno anti sistema degli altri. È possibile sia un inganno, un gioco di prestigio, un trucco alla Houdini. Ma è impossibile non notare che tutto questo sta succedendo e che tutto questo non sia il filo conduttore di una campagna elettorale pazza, sconnessa, contraddittoria, all’interno della quale la rincorsa al populismo non c’è, o meglio si vede poco, e all’interno della quale il tentativo di essere percepiti non come i più agitati, i più descamisados, ma come i meno irresponsabili coincide con un tentativo matto e disperato: provare a essere percepiti come portatori sani di una lezione che l’Italia forse ha imparato a sue spese durante i mesi da incubo del governo gialloverde.
Una lezione che grosso modo suona così: gli avvocati del populismo sono contro gli interessi del paese e l’algoritmo dell’anti populismo è diventato indispensabile per presentarsi di fronte agli elettori con il volto dell’Italia con la testa sulle spalle. E dunque sì, la campagna elettorale è pazza, confusa, scriteriata, ma osservare partiti molto diversi tra loro convinti che sui fondamentali l’Italia non debba fare troppe scemenze (Europa, atlantismo, euro, Pnrr) permette di tirare un sospiro di sollievo, permette di autoconvincersi che un effetto Draghi in questa campagna elettorale c’è (anche se un certo anti populismo può a sua volta essere una forma nuova di populismo) e permette di credere che comunque andranno le cose il treno italiano potrà andare più lento o più veloce (e si capisce che le agenzie di rating siano spaventate dall’idea di avere un’Italia più lenta: se si cresce molto il debito scende automaticamente, se si cresce poco, col debito succede il contrario) ma difficilmente alla fine potrà davvero deragliare. E’ il TTP, bellezza, e tu non puoi farci niente.