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Piazze a destra

Perché gli operai votano Meloni e non Fratoianni

Dario Di Vico

La sinistra più radicale si è allontanata dai luoghi della marginalità. L'energia dei Cinque stelle si è esaurita, mentre la destra intercetta le debolezze a livello nazionale e rende la sua offerta più efficace

Con un longform, o se preferite un mini-saggio, il professor Giovanni Orsina nei giorni scorsi sulla Stampa ha tentato un’operazione molto ambiziosa: una rilettura dei dieci anni dell’interminabile transizione italiana che ci ha portato dal governo Monti alle elezioni anticipate del prossimo 25 settembre. La chiave del suo ragionamento sta nell’abbinata tra leadership forte e “ambiguità”, intesa come capacità di tenere assieme istanze assai diverse tra loro, se non addirittura divergenti. Una versione postmoderna dell’interclassismo democristiano.

 

La destra, il cui elettorato Orsina fotografa in maniera molto efficace (“sociologicamente conservatori ma culturalmente irregolari”) è capace di fare sintesi (o ambiguità), mentre il Pd resta schiacciato sull’immagine di macchina politica del Palazzo. E in questo modo però si preclude la relazione con quelle che Orsina sintetizza come “piazze”. È proprio su questa definizione però che vale la pena approfondire l’analisi e caso mai suggerire uno slittamento lessicale. Piazze infatti evoca inevitabilmente il Novecento e le mobilitazioni della sinistra e del sindacato che puntavano a inserire di prepotenza le rivendicazioni “rosse” in cima all’agenda politica dei governi “nemici”.

 

Le piazze operavano una cucitura tra istanze identitarie di quel popolo e la questione sociale, erano un mix tra obiettivi politici (più potere negoziale alla sinistra in Parlamento per votare leggi di spesa) e proposte redistributive spicciole. In sostanza, erano una delle modalità con cui il personale politico rosso operava una seconda lavorazione della materia prima costituita dalla diseguaglianza e ne faceva una leva per conquistare più potere nel Palazzo e più consenso nel paese cosiddetto reale. In parallelo. Oggi, pur riconoscendo ampiamente che la protesta viene intermediata dalla destra, non ci sono più le piazze di ieri né qualcosa di analogo. In Italia non abbiamo avuto la pressante ed eversiva mobilitazione dei gilet jaunes anche grazie al ruolo responsabile assolto da associazioni di categoria come la Confartigianato o la Cna che non hanno mai sposato il populismo (la dimostrazione è che Cesare Fumagalli, uno dei più conosciuti dirigenti dell’artigianato, è entrato nella segreteria del Pd chiamato da Enrico Letta).

 

Per trovare delle piazze di destra dobbiamo tornare all’agitazione folkloristica di piccoli nuclei di ristoratori sotto Montecitorio nei giorni del lockdown oppure al sovversivismo dei tassisti romani, ma nulla di più strutturato. La protesta sociale egemonizzata dalla destra non va per strada con regolarità e con la capacità di fare sponda con i partiti conservatori come avveniva per i rossi nel ’900. Né sono sopravvissute organizzazioni collaterali come poteva essere il primo sindacato padano di Rosi Mauro. 

 

La protesta fa sponda alla destra tramite i sondaggi (finora) e forse votando a destra il 25 settembre. Quel che sembra però assodato è che l’operaio sindacalizzato e tutelato dalla Cig se ha il figlio cameriere e senza tutele si orienta a destra e la stessa cosa avviene per l’artigiano e il commerciante che sono messi alla frusta dal combinato disposto di un terziario povero basato su una selvaggia competizione di costo e un fisco che riduce via via le tradizionali compensazioni di economia informale (da qui la battaglia contro i Pos, ad esempio).

 

Ciò che terrorizza i ceti produttivi che votano a destra è un tratto caratteristico dell’agenda liberal ovvero la concorrenza, sia essa quella di Uber o delle catene alberghiere che vogliono gestire le spiagge sia quella più palpabile dei minimarket bengalesi o dei superstore cinesi. Questa non-piazza chiede protezione e l’istanza ha preso dei tratti identitari, si è fatta antropologia e porta le partite Iva ad apprezzare l’ambiguità della destra italiana, la sua capacità di stare al di qua e al di là del “sistema”. E per evitare sorprese la destra vuole evitare che il lavoro autonomo dia vita a vere imprese, preferisce congelare lo status quo ovvero che resti piccolo e arrabbiato.

 

Del tutto differente è invece quella che per comodità chiameremo “l’area Fratoianni”, ovvero la galassia delle formazioni politiche e dei circoli intellettuali che contestano da sinistra il Pd di Palazzo e rivendicano un’agenda politica incardinata sulla lotta alle diseguaglianze. Il guaio di questa posizione è che ha pochissimo pescaggio sociale, persino tra gli operai le formazioni a sinistra del Pd messe tutte assieme – secondo gli studi di Nando Pagnoncelli – racimolano circa 4 punti di consenso. Un quinto dei consensi della sola Lega e un sesto della sola Meloni. Se un operaio contesta il sindacato per la chiusura della sua fabbrica o per la scarsa attenzione agli appalti si sposta a destra e non verso “l’area Fratoianni”, che appare incapace di fare proseliti persino tra i Cobas.

 

Come mai? Probabilmente perché la sinistra del disagio è legata allo schema ideologico della centralità del conflitto redistributivo e però le manca un retroterra antropologico. Quindi trova più spazio tra gli intellettuali gauchisti e tra i docenti universitari expat negli atenei di mezzo mondo che tra gli operai in carne e ossa. Potrà sembrare paradossale ma “l’area Fratoianni” contesta il Pd per gli scarsi legami sociali e poi alla prova dei fatti ne vanta ancora di meno. Non è mai piazza, è tutt’al più tinello. Polemizza e si divide dai riformisti per l’interpretazione del coefficiente di Gini o per le politiche da varare in favore della mobilità sociale (l’education i primi e la dote per i 18enni i secondi), si accapiglia per il giudizio sul capitalismo (da tosare ex post à la Olof Palme o da penalizzare fiscalmente ex ante) ma in fondo non ha una cassetta degli attrezzi radicalmente diversa.

 

Scommette su una redistribuzione contabile e comunque non è presente nei luoghi della vera marginalità. Resta di conseguenza al di qua della dimensione identitaria che anima i conflitti centrali di quest’epoca come il divario città-campagna che caratterizza e determina, dalla Brexit in poi, le prove elettorali di tutti i paesi dell’occidente.
Una variante della politicizzazione delle diseguaglianze è stata sicuramente rappresentata dai Cinque stelle che avevano la prerogativa e il vantaggio rispetto all’“area Fratoianni” di non provenire dal marxismo, pur nelle sue infinite varianti. E quindi di essere mentalmente sgombri rispetto alla necessità di operare una radicale discontinuità. I grillini si sono imposti sulla scena politica italiana grazie al successo del movimento della critica della politica (“la casta”) e solo successivamente si sono aperti alle questioni sociali realizzando di fatto un’Opa sulla diseguaglianza e chiudendo il ciclo dell’egemonia rossa.

 

Da qui la battaglia sul Reddito di cittadinanza, i provvedimenti contro i contratti a termine (il decreto “Dignità”) e la teoria dell’Inps del popolo sostenuta da Pasquale Tridico. Questo mix di antipolitica e di attenzione alle basse frequenze della società ha funzionato nell’occasione delle elezioni del 2018 ma poi la sua spinta propulsiva si è esaurita e il consenso che i 5s avevano accumulato è stato progressivamente cannibalizzato dalla protesta di destra, rivelatasi più coriacea e dotata di un maggiore retroterra antropologico. Ovvero di un’idea di protezione più antica, più incardinata nelle debolezze del carattere nazionale e quindi decisamente più efficace della retorica comunisteggiante dell’uno vale uno. Il risultato è stato che gli elettori grillini sono andati a destra e parte dei gruppi dirigenti si sono rifugiati nel centrosinistra. E molti elettori che nel 2018 avevano votato i Cinque stelle per introdurre il Reddito di cittadinanza, il prossimo 25 settembre voteranno Giorgia Meloni per abolirlo. Piazze vuote e urne vuote.

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