Aeronautico, digitale, finanziario: i sovranismi del centrodestra e l'arma del golden power
Da quando è stato introdotta nel 2012 dal governo Monti, la possibilità di bloccare operazioni che coinvolgono imprese considerate strategiche è stata estesa a molti settori diversi. Se in mani sovraniste potrebbe essere un potenziale pericolo per la libertà del mercato
Nel suo ultimo agile saggio “Bentornato stato, ma” (il Mulino), Giuliano Amato solleva una questione controversa, “un tema delicato”, così lo definisce, che in questo clima politico può diventare allarmante. “E’ l’area degli interventi pubblici accentuatamente restrittivi dell’autonomia imprenditoriale – scrive il presidente della Corte costituzionale alla fine del capitolo introduttivo – in nome di esigenze pubbliche che possono essere ritenute coerenti con i limiti che l’art. 41 della Costituzione impone alla libertà di iniziativa privata, ma possono anche apparire contestabili in base al medesimo articolo, per l’eccessiva compressione della libertà. Si pensi a una ipotetica norma che imponga la produzione interna e vieti quindi l’importazione di beni rilevanti per la sicurezza nazionale”. La questione finirebbe all’Alta Corte che userebbe i suoi usuali criteri di “ragionevolezza” e “proporzionalità”, aggiunge Amato. “Speriamo di non doverci arrivare”, conclude.
Non è certo una preoccupazione teorica né una esercitazione scolastica. Stiamo assistendo a un sovranismo aeronautico (Fratelli d’Italia vuole che l’Ita ridiventi la compagnia di bandiera), un sovranismo digitale (sempre il partito della Meloni vorrebbe che la Casa depositi e prestiti lanciasse un’opa su tutta la Tim), un sovranismo siderurgico (la campagna elettorale a Taranto si divide tra chi vuole chiudere l’Ilva e chi la vuole nazionalizzare di nuovo), un sovranismo finanziario (la Lega propone di vietare alle banche commerciali di detenere partecipazioni e operare in Borsa come le banche d’affari, ripristinando le norme della legge bancaria del 1936). Sono operazioni complesse, alcune delle quali troppo difficili o irrealizzabili. Ma c’è già a portata di mano un’arma che può diventare letale, se messa in mani autarchiche. Si tratta del golden power, al quale si è fatto ricorso in modo sempre più esteso.
Introdotto nella primavera del 2012 dal governo Monti come meccanismo meno invasivo della golden share (il pacchetto azionario, anche minimo, posseduto dal governo dotato di un potere di veto) si è esteso a macchia d’olio. Lo stato, secondo la versione originaria, può opporsi, porre condizioni, vietare delibere societarie sgradite in aziende considerate strategiche e per motivi imperiosi di interesse generale (ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità). Nel 2017 vengono inseriti tra i settori strategici anche quelli ad alta intensità tecnologica.
E se un’azienda estera lancia un’opa ostile su una pubblica, il governo può contrastarla con un aumento di capitale. Una norma ad hoc per bloccare la scalata di Vivendi alla Tim, che consente un potere discrezionale molto ampio perché nel frattempo le attività protette si sono moltiplicate. Dal 2019 il veto si applica anche al 5G in funzione anti-cinese (contro Huawei). Inoltre viene esteso a un ampio ventaglio di attività: acqua, salute, media, archiviazione dei dati, aerospazio, semiconduttori, intelligenza artificiale, nucleare, materie prime e beni alimentari. Insomma resta fuori ben poco. Nel 2020 il governo Conte 1 decide di far ricorso ai poteri speciali anche per aziende comunitarie responsabili di comportamenti elusivi verso le norme italiane. Anno dopo anno vengono innalzate nuove barriere. E si diffondono le indagini da parte delle autorità: sono state 341 nel 2020 con un aumento del 45 per cento, mentre l’anno scorso sono arrivate a 496. Tutti dossier che finiscono a Palazzo Chigi.
Il Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza, insomma i servizi segreti) ha pubblicato nel 2020 un dossier sul golden power. Anche nella Ue prevale un atteggiamento protezionistico per lo più nei confronti di paesi esterni, soprattutto la Cina e ora la Russia. Gli Stati Uniti usano i loro poteri soprattutto in funzione strategica per proteggere il complesso militar-industriale che ha raggiunto ormai confini sempre più vasti. Tuttavia, è necessario che il potere di veto non venga confuso con scelte di politiche industriali più o meno interventiste, sottolinea il Dis, e “sono da evitare reazioni fobiche nei confronti di potenziali partner… Non si può arretrare rispetto ai capisaldi del mercato unico – cos’è che sarebbe esiziale per un paese come l’Italia votato all’export e bisognoso di investimenti anche esteri – ma bisogna porre le condizioni affinché le imprese europee possano competere con le realtà industriali di altri paesi facilitando i processi di crescita e consolidamento”.
La stessa disciplina della concorrenza va interpretata in modo più flessibile, adeguato ai nuovi rapporti di forza tra potenze globali, eppure rimangono limiti da non superare. Tim in mano alla Cassa depositi e prestiti, per esempio, solleva questioni che riguardano la natura della Cassa: se diventa il puro braccio operativo del governo allora non potrà più essere considerata un soggetto privato, il suo debito dovrà sommarsi a quello del Tesoro. Così dicono le norme europee. Tuttavia in questo come in altri casi il problema non è l’Unione europea, bensì la Costituzione italiana, come rileva Amato; non il cerbero di Bruxelles, ma il guardiano del Quirinale.