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Una guida

Lo scacco matto di Meloni. Le cinque mosse per togliere cartucce agli avversari

Non essere incompatibile con la guida dell'Italia. Sarà dura, ma per i suoi avversari

Claudio Cerasa

Al Mef? Né Tremonti né Savona. Il Pnrr? Non va sabotato. In politica estera? Meno Le Pen, più Draghi. In cinque passi, uno scenario nuovo di fronte ai suoi avversari: la post impresentabilità

Sarebbe un pericolo per l’Italia? Forse. Sarebbe un pericolo per l’economia? Probabile. Sarebbe un pericolo per le istituzioni? Plausibile. Sarebbe un guaio per l’Europa? Verosimile. Ma la ragione per cui l’ascesa elettorale di Giorgia Meloni non sembra far paura fino in fondo né agli elettori, né alle cancellerie, né ai mercati, né ai suoi avversari, che spesso non trovano altro di meglio da dire che il problema di Meloni sono i suoi alleati, gli alleati in Italia e quelli in Europa, più che lei stessa, è legata a cinque mosse importanti, chirurgiche, che hanno permesso al leader di Fratelli d’Italia di fare un passo in avanti nella stagione della post impresentabilità. Cinque mosse senza la quali, per capirci, sarebbe stato difficile, a bocce ferme, considerare compatibile la figura di Meloni con l’immagine della guida del paese.

 

Alcune delle mosse sono esplicite, e sono già emerse alla luce del sole, altre sono implicite, e sono alcune delle informazioni offerte ai propri interlocutori internazionali dal leader di Fratelli d’Italia. La prima mossa, che coincide anche con una notizia, riguarda una volontà importante, ancorché implicita, che ha che fare con l’identikit del possibile ministro del Tesoro. E l’identikit suggerisce questo: niente ministro alla Paolo Savona, che come ricorderete portò all’iniziale rottura tra la coalizione gialloverde e il capo dello stato nella primavera del 2018; niente ministro politico, come potrebbe essere per esempio una figura alla Giulio Tremonti; e carte tutte puntate su una figura tecnica, come ripete da giorni Meloni a chiunque le ponga questo tema, capace di garantire continuità con il lavoro fatto dal governo Draghi, capace di presentarsi in Europa come una figura affidabile e capace di  muovere i fili giusti per schivare gli eventuali cortocircuiti che potrebbero essere generati dall’incrocio tra sovranismo e mercato.

 

Una figura che, secondo molti, potrebbe coincidere con uno stimatissimo banchiere centrale come Fabio Panetta e che secondo alcuni potrebbe coincidere persino con l’attuale ministro del Tesoro, Daniele Franco, la cui eventuale conferma avrebbe un impatto notevole non tanto per le caratteristiche del ministro quanto per il messaggio che la mossa rappresenterebbe, essendo il Mef la struttura che governa il cronoprogramma del Pnrr.

 

E qui arriviamo alla seconda mossa, che coincide con un messaggio che il centrodestra sta cercando in tutti i modi di offrire ai suoi interlocutori: il Pnrr non cercheremo di sabotarlo, ma proveremo a migliorarlo. “Pieno utilizzo delle risorse del Pnrr, colmando gli attuali ritardi di attuazione” e “revisione del Pnrr in funzione delle mutate condizioni, necessità e priorità”. Provare a modificare alcuni punti del Pnrr, in virtù di alcune trasformazioni prodotte dalla guerra in Ucraina e in virtù di alcune priorità indotte dalla nuova agenda della transizione energetica nazionale, potrebbe non essere necessario, come ha detto a questo giornale il ministro Roberto Cingolani, ma provare a cambiare il Pnrr con un occhio attento ai ritardi nell’attuazione non è un messaggio che indica la volontà di sfasciare tutto. È piuttosto un messaggio che indica la volontà di verificare se esistano o no margini di manovra per poter modificare qualcosa.

 

E dunque anche qui il punto è chiaro: non sabotare, ma modificare. La terza questione, questa sì esplicita, riguarda il posizionamento internazionale, che Meloni ha tenuto a precisare all’inizio della campagna elettorale: l’agenda Meloni, in politica estera, sarà identica all’agenda Draghi, per tutto quello che riguarda l’atlantismo, il sostegno all’Ucraina, la difesa dell’Europa dall’aggressione della Russia. Il quarto punto, collegato sempre ai rapporti internazionali del partito guidato da Meloni, ha a che fare con due parole, o meglio due cognomi, scomparsi dal radar del centrodestra meloniano: Orbán e Le Pen. Con il primo, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il partito di Meloni ha tagliato i ponti, e i suoi consiglieri diplomatici le hanno impedito di incontrarlo anche nelle occasioni in cui Orbán è passato in Italia. Con la seconda, invece, il partito di Meloni ha scelto di non avere nulla a che fare, già dai tempi del ballottaggio presidenziale francese, “e onestamente se fossi stato in Francia e avessi dovuto votare al ballottaggio tra Le Pen e Macron non avrei votato per Le Pen”, ha detto qualche giorno fa a questo giornale il governatore dell’Abruzzo Marco Marsilio. 

 

Il quinto punto, forse quello più spassoso, riguarda il rapporto tra Salvini e Meloni, che nella geometria del centrodestra che tenta di allontanarsi dalla stagione dell’impresentabilità ha un valore persino superiore rispetto a ogni tentativo di Meloni di stipare nell’armadio gli scheletri del fascismo che fu. E Salvini, per Meloni, è forse l’elemento più forte di presentabilità. Sia per la capacità di Meloni di non assecondare il salvinismo, su alcuni dossier, come il putinismo irreversibile di Salvini. Sia per la capacità di non dire una parola una a sostegno della possibilità che Salvini, in caso di vittoria del centrodestra possa andare al Viminale, scenario evocato più volte dallo stesso Salvini nelle ultime settimane. Sia per la capacità di Meloni di suggerire promesse non pazze in campagna elettorale, tentativo non riuscito in verità viste le promesse pazze messe in campo dal partito di Meloni sul tema delle pensioni. Sia, in definitiva, per la capacità di veicolare un messaggio basico: abbiamo visto tutti di cosa è capace Matteo Salvini, quando governa, se volete evitare che Salvini abbia potere in un governo di centrodestra votate me e non lui.

 

La campagna elettorale, anche per questo, sembra, a oggi, più una questione interna a una coalizione che una sfida tra coalizioni. Con una certezza importante nelle mille incertezze della campagna elettorale: nella stagione della post impresentabilità neppure le coalizioni più impresentabili sembrano avere l’intenzione di chiudere molte parentesi positive che l’Italia ha scelto di aprire un anno e mezzo fa con l’arrivo di Mario Draghi al governo.

 

E dunque sì. Un’Italia guidata da Giorgia Meloni potrebbe essere un pericolo per l’economia, per le istituzioni, per l’Europa, ma la ragione per cui Meloni oggi non fa così paura né agli elettori, né alle cancellerie, né ai mercati, è legata a cinque giochi di prestigio che le hanno permesso con un certo successo, almeno finora, di mettere in secondo piano il rischio di avere un’Italia guidata da una complottista follower di Trump, tema non da poco, e di non rendere più la sua figura incompatibile con un’immagine chiave: quella della guida dell’Italia. In bocca al lupo ai suoi avversari: sarà dura.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.