Spiace per De Masi, ma il populismo prospera dove soffrono le libertà
Il sociologo attacca il populismo di oggi in Italia perché avrebbe aperto le porte al liberismo. La realtà, negli ultimi tempi, ha mostrato l’opposto. Basta vedere i programmi elettorali di Lega e FdI e considerare cosa ha fatto il mercato con la guerra di Putin
Gentile Domenico De Masi, cordialmente, ma che sta a di’? I nemici del liberismo non lo potranno mai confessare in modo aperto ma la verità è che da qualche a tempo a questa parte le loro certezze granitiche sul tema della cattiveria del mercato si sono ritrovate di fronte un muro particolarmente diabolico chiamato realtà. Fino a qualche tempo fa, per i nemici del liberismo l’assioma era lineare: se sei un fan sfegatato del mercato non puoi che essere anche un fan sfegatato del populismo. E così, per mesi, l’Internazionale unica dell’anti liberismo non ha fatto altro, prima di ritrovarsi in mutande, che portare avanti una tesi di questo tipo: scommettere eccessivamente sul mercato significa inevitabilmente indebolire la democrazia e chiunque voglia rafforzare il mercato a discapito dello stato non fa altro che lavorare per indebolire la democrazia.
Negli ultimi mesi, però, la teoria del “liberismo uguale autocrazia” ha incontrato sulla sua strada alcuni ostacoli insormontabili di fronte ai quali forse anche i più accesi sostenitori della sofisticata teoria “liberismo uguale morte” – quelli cioè che considerano l’Italia un paese dominato dal liberismo nonostante la spesa pubblica sfiori la metà del pil, nonostante in Italia siano in vigore oltre 250 mila leggi, nonostante in Italia esistano circa 8.000 società a partecipazione pubblica, nonostante vi sia una spesa pubblica e una pressione fiscale che rispettivamente si trovano al 48,9 per cento e al 43 per cento del pil, nonostante i servizi pubblici locali siano affidati senza gara a società cosiddette in-house – potrebbero essere assaliti da una qualche forma di dubbio, osservando due fatti non indifferenti che si sono andati a manifestare negli ultimi mesi. Il fatto numero uno, che è il più recente, riguarda la campagna elettorale. Il fatto numero due, che è il meno recente, riguarda la guerra combattuta da Putin in Ucraina.
Che c’entra il liberismo con queste storie? Se si ha la pazienza di mettere a fuoco il primo tema, la risposta a questa domanda la si ricava spulciando il programma elettorale dei partiti con più scheletri populisti nei propri armadi. E non è un caso che sia Matteo Salvini sia Giorgia Meloni abbiamo scelto di mettere al centro del proprio processo politico indovinate cosa? Proprio lui: il liberismo. E dunque, basta aprire il nostro mercato agli stranieri. Basta semplificare la vita ai signori dei mercati. Basta essere ostaggi dei signorotti della finanza. Basta esporre i nostri artigiani alla concorrenza sleale. Basta lasciare le nostre città in balìa della globalizzazione. Basta svendere i nostri gioielli, come Ita, come Mps, come Tim. Basta rinunciare a nazionalizzare tutto ciò che si può nazionalizzare, come Ita, come Mps, come Tim (e non osiamo immaginare cosa potrebbe succedere all’Italia mettendo le leve sempre più discrezionali del golden power nelle mani dei nazionalisti sovranisti).
La dottrina sovranista è chiara. I problemi del paese non si risolvono scommettendo su una maggiore apertura dell’Italia al mondo, su una maggiore capacità di creare condizioni per esportare, su una maggiore presenza del paese nel mare della globalizzazione, ma si risolvono attingendo a mani basse all’unica fonte che il populismo considera idonea a purificare i peccati del mondo: lo stato. Serve più stato ovunque, per i populisti, sia quando si parla di politica industriale, sia quando si parla di immigrazione, sia quando si parla di economia, sia quando si parla di pensioni, dove più stato nel caso specifico coincide con l’attingere anche qui a mani basse dal debito pubblico, e più i populisti lo dicono, più i populisti lo professano, e più risulta evidente un rovesciamento di ruoli mica male.
E il punto è chiaro: ma se i populisti sono diventati un argine contro il liberismo, contro la concorrenza, contro la competizione, contro il mercato, contro la globalizzazione, non sarà mica che il liberismo, la concorrenza, la competizione, il mercato, la globalizzazione sono un argine contro il populismo, contro il partito della spesa, contro l’Internazionale del debito? La riflessione diventa ancora più croccante, se così si può dire, se si sposta il ragionamento sul fronte della guerra in Russia. E la questione lì è, se possibile, ancora più autoevidente, se si mettono in fila tutte le aziende, i brand, le imprese, le multinazionali che in questi mesi hanno accettato di mettersi a disposizione dei nemici delle dittature, accettando magari di perdere anche una quota di mercato in Russia, per difendere la democrazia liberale dai nemici della libertà.
Domenico De Masi, sociologo un tempo molto stimato, divenuto una delle nuove improbabili stelle del firmamento grillino, qualche giorno fa ha sostenuto la brillante tesi che il populismo di oggi, in Italia, deve essere combattuto con tutti i mezzi a disposizione perché avere più populismo significa avere più liberismo. Spiace per il professor De Masi, ma la realtà, negli ultimi tempi, ha mostrato l’esatto opposto. Dove la globalizzazione non c’è, il populismo prospera e le libertà soffrono, e dove il mercato non viene strozzato, ma viene valorizzato, il populismo di solito non ha scampo. Più populismo uguale meno libertà. Più libertà uguale meno populismo. Più spazio alla globalizzazione uguale meno spazio ai regimi illiberali. Non dovrebbe essere così difficile da capire. O no?