Purghe salviniane
Tutti gli uomini di Salvini. In Veneto le liste elettorali sono un affronto alla base leghista
O yes man di Matteo, o a casa. E piuttosto che legionari di Zaia, meglio candidati liguri o ex tosiani: “Il Carroccio è diventato un club privato a regia romana”, sbottano i militanti. Ma il governatore dribbla il polverone
Morte e sepolte le bolge del Papeete. Ora è tempo del privé, più furtivo che esclusivo: nelle liste elettorali della Lega in affanno si entra solo con il placet di Salvini. Senza alcun confronto coi territori. Nemmeno in Veneto, che da mesi ribolle contro il dirigismo del Carroccio. L’ennesimo oltraggio è la scelta dei candidati ai collegi, forse il più bruciante, “perché a Limena, nel Padovano, tanto per dirne una, il segretario ci aveva promesso che sarebbero stati i militanti veneti a decidere i loro rappresentanti”, si lamenta il consigliere regionale Fabrizio Boron. “Non è stato così: tutto era già apparecchiato dall’alto”. Per la prima volta, la direzione locale non è stata neanche interpellata sui nomi candidabili. Da qui la metafora del “club privato di pochi privilegiati, che da Roma muovono ogni filo. Il vero spirito della Lega è ben altro”.
Così Boron e gli altri amministratori zaiani devono ingoiare un rospo non da poco. Perché tranne Gianangelo Bof, trevigiano di raccordo che ultimamente però si è un po’ allontanato dall’ombra del Doge, le truppe selezionate dalla nomenklatura verde sono tutte salviniane giurate. Dall’europarlamentare campionessa di preferenze Mara Bizzotto all’ex sindaco di Padova Massimo Bitonci, premiato con uno slot all’uninominale nonostante il disastro architettato alle ultime amministrative nella città di cui pure fu sindaco. Sicuri di elezione anche il commissario regionale Alberto Stefani e il vicesegretario federale Lorenzo Fontana, più i capilista dei plurinominali Erika Stefani, ministro uscente e dunque ricandidata d’obbligo, e Andrea Ostellari, già presidente della commissione Giustizia al Senato. E poi Coin, Bisa, Tosato, Andreuzza. La schiera degli esclusi invece è folta, a partire dal collegio Veneto-1 dove Venezia scompare dalla mappa del leghismo – fuori gli uscenti Bazzaro, Vallotto e Fogliani. Mentre Gianpaolo Vallardi, storico parlamentare di Treviso, ha scoperto di essere stato silurato “a mezzo televisione”.
Ma non c’è solo il criterio degli yes man. Nel listone emerge pure un tocco vintage, a spiccate sfumature tosiane: dalle stesse Bizzotto e Andreuzza, passando per Erik Umberto Pretto e Roberto Turri, la quota di candidati con trascorsi vicini all’ex sindaco di Verona espulso da Salvini nel 2015 è significativa. Proprio quando lo stesso Tosi, fresco di passaggio a Forza Italia, è stato designato capolista del suo partito al plurinominale della Camera nella provincia di Verona. Prove tattiche di governo, chissà. Tutt’altra storia invece il nome di Lorenzo Viviani, dirottato da La Spezia al collegio di Padova e Rovigo: era in commissione Agricoltura nell’ultima legislatura. “La Liguria è una delle regioni più colpite dal taglio dei parlamentari”, spiega Edoardo Rixi: “Ricandidare Viviani è un riconoscimento dell’impegno profuso”. E sia. Ma vallo a spiegare ai leghisti veneti.
In tutto questo c’è l’assordante silenzio di Luca Zaia. Per arginare la corrente del governatore più amato d’Italia (e governista con Draghi), Salvini ha adottato lo stesso piano applicato per Giorgetti in Lombardia: a costo di voti certi, tagliar loro i fedelissimi. E Zaia ha lasciato fare, senza esporsi granché per difenderli. “Non ho partecipato alla redazione delle liste elettorali”, dice, con sfacciato risultatismo: “Basta polemiche, i nomi non significano nulla, contano le posizioni che i candidati andranno a ricoprire dopo il voto”. Tradotto: non è ancora il momento di alzare la voce. “Ma se il centrodestra dovesse vincere le elezioni e dimenticarsi dell’autonomia, qui in Veneto non potrà più presentarsi. E io sarò pronto a immolarmi per quei cittadini che chiederanno il conto a Roma”. Come si dice temporeggiare in dialetto?