ci scrive il Ministro per la PA
Un nuovo patto per l'Italia. L'appello di Brunetta
La revisione del Pnrr sarebbe un rischio enorme che comprometterebbe le sorti del nostro paese. Invece di azzuffarsi su come modificarlo, serve un accordo politico per seguire il solco del governo Draghi
Quando la situazione si fa calda bisogna mantenere la testa fredda. Sarebbe sbagliato mescolare il tema della necessità di provvedimenti emergenziali contro il caro energia con quello della revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), cosa diversa dall’aggiornamento dei suoi contenuti (questo sì, indispensabile, come vedremo). Finora il governo Draghi è riuscito nell’intento di contrastare l’inflazione: da inizio anno ha stanziato più di 50 miliardi di euro per calmierare bollette e prezzi dell’energia e per tutelare il potere d’acquisto delle famiglie e la competitività delle imprese. Tutto senza razionamenti, senza nuovo deficit, mantenendo alta la crescita e rispettando gli obiettivi del Pnrr.
Questo impegno “duale” dovrà continuare su entrambi i fronti: da un lato le misure per affrontare le emergenze, dall’altro la realizzazione puntuale delle riforme e degli investimenti previsti dal Pnrr. Senza rinunciare alla proposta del price cap in sede europea, e usando integralmente i margini consentiti sulle deroghe ai divieti sugli aiuti di stato già in vigore. Alla luce di questa doverosa premessa, è comprensibile che i cambiamenti economici e geopolitici intervenuti dall’aprile 2021 a oggi abbiano aperto un dibattito, nell’attuale campagna elettorale, sull’opportunità di modificare il Pnrr per adattarlo al nuovo contesto. Un dibattito sicuramente legittimo, sia perché la revisione del Pnrr è legalmente possibile, sia perché la richiesta di cambiamento arriva dall’unica forza politica che è sempre stata all’opposizione del governo Draghi, unica astenuta al voto del 27 aprile 2021 sulle risoluzioni di maggioranza che hanno dato il via libera al testo del Piano trasmesso alla Commissione Ue il successivo 30 aprile. Ma la domanda che occorre porsi è se, oltre che legittima, una revisione del Pnrr risulti anche conveniente per il futuro del paese.
Le norme che regolano il processo di revisione del Piano sono dettate dall’articolo 21 del regolamento Ue 241/2021 del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza. Esso stabilisce che qualora il Pnrr, compresi i pertinenti traguardi e obiettivi, non potesse più essere realizzato, in tutto o in parte, dallo stato membro interessato a causa di circostanze “oggettive”, lo stesso stato membro può presentare alla Commissione una richiesta motivata per poter presentare una proposta tesa a modificare o sostituire le precedenti decisioni di esecuzione del Consiglio. A tal fine, lo stato membro può proporre un Pnrr modificato o, addirittura, un Piano completamente nuovo. Se ritiene che i motivi addotti dallo stato membro giustifichino una modifica del pertinente Pnrr, la Commissione valuta il Piano modificato o il nuovo Piano e presenta una proposta per una nuova decisione di esecuzione del Consiglio, entro due mesi dalla presentazione ufficiale della richiesta. Se necessario, lo stato membro interessato e la Commissione possono convenire sulla proroga di tale termine di un periodo di tempo ragionevole. Il Consiglio adotta la nuova decisione di esecuzione, di norma entro quattro settimane dall’adozione della proposta della Commissione. Al contrario, se ritiene che i motivi addotti dallo stato membro non giustifichino una modifica del pertinente Pnrr, la Commissione respinge la richiesta, dopo aver dato allo stato richiedente la possibilità di presentare le proprie osservazioni entro il termine di un mese dalla comunicazione delle conclusioni di Bruxelles.
Come si può ben capire, quindi, essendo il Pnrr un contratto a prestazioni corrispettive, che genera obblighi vincolanti per entrambi i sottoscriventi, la sua modifica non può che avvenire, come per ogni altro contratto, per volontà esplicita tanto del governo interessato quanto della Commissione europea. Non può, inoltre, essere chiesto per una ragione qualsiasi, ma solo per motivazioni di comprovata impossibilità sopravvenuta nel poter rispettare il precedente contratto. Questo è il punto cruciale, che rende la richiesta di modifica del Pnrr legittima ai sensi dell’articolo 21, politicamente ed economicamente difficile e pericolosa da percorrere per il nostro paese. Politicamente, la richiesta unilaterale di rivedere obiettivi e scadenze del Piano da parte di uno stato beneficiario dei fondi (e l’Italia è il principale beneficiario!) andrebbe giustificata con l’incapacità nel riuscire a rispettare il contratto sottoscritto dal paese con la Commissione europea. Non potrebbe valere infatti la ragione del cambio di governo, poiché pacta sunt servanda, ci ha insegnato la locuzione latina diventata il principio cardine del diritto internazionale: i patti si rispettano, anche se sono stati sottoscritti da un esecutivo precedente, del quale non si condividono le decisioni. Una eventuale richiesta da parte del nuovo governo italiano farebbe scattare vari campanelli d’allarme presso le cancellerie internazionali e le istituzioni europee: l’Italia certificherebbe, giusto o sbagliato che sia, una difficoltà nel mantenere gli impegni presi. Dal punto di vista economico, inoltre, una revisione del Pnrr originario tutta da negoziare con Bruxelles comporterebbe il rischio di una sospensione nell’erogazione dei fondi e il pericolo di un conseguente blocco di progetti e riforme: stop ai cantieri, alle semplificazioni, agli investimenti.
L’iter di revisione richiederebbe molti mesi. L’ulteriore rischio è quello di uscire dal perimetro di eleggibilità del Tpi, il nuovo strumento anti frammentazione dei debiti sovrani messo in campo lo scorso luglio dalla Banca centrale europea. Tra i requisiti necessari per poter accedere a questo programma di acquisto dei titoli di stato, infatti, è previsto il rispetto, da parte del paese sottoposto al pericolo di un allargamento dello spread, del programma di riforme previsto dalle Country Specific Recommendation della Ue, tradotte proprio negli obiettivi di riforme e investimenti del Pnrr. Il solo fatto di allontanarsi da quel numerus clausus di riforme, peraltro concordato da entrambe le parti contraenti, implica l’impossibilità di richiedere l’attivazione dello scudo anti spread da parte della Bce. Sarebbe un disastro.
Vi è poi un’ulteriore considerazione, che riguarda l’effetto reputazione dell’Italia presso gli investitori esteri. Una reputazione che, grazie al prestigio di cui gode Mario Draghi, aveva toccato con il governo dimissionario livelli che non si vedevano da decenni. Un invisible asset, quello della reputazione internazionale, che difficilmente potrà essere conservato nel caso in cui uno dei primi passi del prossimo governo italiano fosse quello di richiedere una revisione del principale accordo di politica economica che lega il paese all’Europa, per manifesta incapacità (o scarsa volontà politica) di realizzarlo.
Occorre dunque rassegnarsi allo status quo del Pnrr, come alcune forze politiche sembrano suggerire? Assolutamente no, perché è evidente che il contesto geopolitico ed economico negli ultimi mesi è profondamente cambiato. Ma per le ragioni appena espresse non può essere l’articolo 21 del regolamento Pnrr la base per questa revisione. Esiste, piuttosto, un percorso che consentirebbe di rimodulare il Piano già a partire dalla prossima legge di Bilancio, per renderlo ancora di più la grande occasione di rilancio della crescita, della competitività e della giustizia sociale nel nostro paese. Questo percorso passa per tre azioni chiave: confermare, accelerare e aggiornare. Innanzitutto, confermare. Il Pnrr è un contratto che sposa il paradigma “risorse in cambio di riforme e investimenti” ed è caratterizzato da elementi di forte condizionalità e rigidità: i suoi target e le sue milestone seguono un cronoprogramma preciso, il cui mancato rispetto, anche soltanto di un obiettivo, comporta l’automatica sospensione nell’erogazione dei fondi. Per come è stato concepito temporalmente il Piano, inoltre, la gran parte dei provvedimenti di riforma (di quelle riforme strutturali da sempre invocate da Bruxelles e mai realizzate: Pubblica amministrazione, semplificazioni, giustizia, concorrenza, appalti) sono stati calendarizzati entro i primi due anni, dunque entro giugno 2023, secondo l’idea che gli investimenti si realizzano in maniera più efficiente se preceduti dalle riforme che ne spianano la strada. E’ dunque fondamentale l’impegno, nei confronti di Bruxelles e dei mercati internazionali, a mantenere invariato il sentiero di riforme i cui fondamentali sono già stati approvati nei 18 mesi di vita del governo Draghi.
In secondo luogo, accelerare. Come emerso da diversi rapporti diffusi in queste settimane, gli investimenti del Pnrr iniziano a scontare il rischio di ritardi nella fase esecutiva, sia per cause tecniche e amministrative, sia per colpa del generalizzato aumento dei prezzi che rende molto incerti i ritorni di diversi appalti. Su quest’ultimo punto il governo è già intervenuto nei mesi scorsi con la creazione di un apposito fondo che garantisce le risorse necessarie a rivedere i prezzi in diverse gare di appalto legate al Pnrr, al fine di adeguarle al nuovo livello dei costi di materie prime e semilavorati. Questo fondo potrebbe essere sicuramente esteso e potenziato, ove opportuno, già a partire dalla prossima legge di Bilancio. Per ovviare ai gap tecnici e amministrativi presenti nella Pa locale, inoltre, è attivo da fine giugno presso il Mef uno strumento di supporto agli enti locali impegnati nella partecipazione ai bandi Pnrr, noto come Capacity Italy. Tale strumento, già operativo su diversi bandi, potrebbe essere ulteriormente potenziato con risorse disponibili a questo scopo sia all’interno del Pnrr sia presso i nuovi fondi strutturali europei il cui accordo di programma è stato da poche settimane chiuso con la Commissione.
Infine, aggiornare. Il Pnrr è fortemente voluto e finanziato dall’Europa nell’ambito del Next Generation Eu, e non riguarda soltanto la ripresa italiana, ma quella dell’intera Unione europea. In questo senso, è un catalizzatore del processo di convergenza. Bruxelles tiene molto al fatto che l’Italia continui ad attuare con responsabilità l’intero Piano, perché il suo successo produce benefici ed esternalità positive anche su tutto il resto dell’economia europea. Per questo motivo una modifica del Pnrr potrebbe partire proprio da Bruxelles, di concerto con Roma che potrebbe fungere da motore di questa proposta, riorientando alcuni progetti di investimento programmati per privilegiare le nuove priorità, come già avvenuto con RePower Eu. Inoltre, ricordiamo che il Pnrr italiano non si compone solo delle milestone e dei target concordati con l’Europa per 191,5 miliardi di euro, ma anche di 30 miliardi di investimenti che, con la stessa logica, sono stati inseriti nel cosiddetto Fondo complementare. Sarebbe politicamente un segnale molto utile se l’Italia, per avviare il processo europeo di aggiornamento di tutti i piani nazionali di ripresa e resilienza, iniziasse unilateralmente ad aggiornare i progetti contenuti nel suo Fondo complementare, cosa che il governo è libero di fare in ogni momento.
La morale, per concludere, è molto semplice. E’ segno di serietà, per un nuovo esecutivo, proseguire il lavoro svolto da chi lo ha preceduto, soprattutto se quel lavoro ha dato lustro al paese e se ci sono ingenti risorse finanziarie da salvaguardare, ben 191 miliardi, delle quali l’Italia ha estremamente bisogno per sostenere la crescita. Non farlo, interrompere il percorso virtuoso che ha portato un aumento del pil del 6,6 per cento nel 2021 e che probabilmente ci porterà oltre il 3 per cento nel 2022, costerebbe al nostro paese un danno economico e politico di dimensioni enormi. Un danno che gli italiani non meritano.
Continuità. E’ questa, dunque, la parola che dovrebbe caratterizzare il delicato passaggio di testimone che avverrà tra il governo Draghi e il futuro esecutivo. Continuità su due fronti: quello delle riforme contenute nel Pnrr e quello della sostenibilità della finanza pubblica. L’Italia è un paese fortemente indebitato, come ha ricordato Draghi, e quel debito deve essere ridotto, innanzitutto tenendo la barra a dritta sulla crescita virtuosa, senza nuovo deficit. E se il governo uscente presenterà a settembre una Nadef con i saldi solo tendenziali, al prossimo toccherà scrivere il quadro programmatico della legge di Bilancio 2023, che dovrà seguire queste due direttrici: continuità nelle riforme e sostenibilità del debito. Al primo punto si inseriscono le riforme fondamentali del fisco, della concorrenza e della giustizia, oltre al completamento di quella della Pubblica amministrazione. Sono 55 gli obiettivi da raggiungere entro il 31 dicembre per ottenere 21,8 miliardi dall’Ue, 27 entro il 30 giugno 2023 per incassare altri 18,4 miliardi, ben 69 nella seconda metà del prossimo anno per 20,7 miliardi. E così via, di semestre in semestre, fino a fine 2026.
Se il prossimo governo, di qualunque colore esso sia, saprà raccogliere, senza disperderla, l’eredità di quello uscente, allora avrà l’appoggio dei mercati e delle cancellerie europee, che questa continuità si aspettano. La continuità del Pnrr non pregiudica l’aggiornamento del Piano, anzi, è il presupposto per il suo credibile aggiornamento, perché è chiaro a tutti che il successo dell’Europa nei confronti della Next Generation è in larga parte il successo dell’Italia nella realizzazione del suo (aggiornato) Piano nazionale. Chiunque vincerà le elezioni e si ritroverà alla guida del paese dopo il 25 settembre dovrà allora prendere una prima decisione importante: scegliere tra la continuità o la discontinuità rispetto al Pnrr e agli accordi che Draghi ha siglato con l’Europa. Una scelta dirimente, da cui dipenderà il destino di tutti noi.
Lancio dunque una proposta: anziché azzuffarci in campagna elettorale sul modificare o non toccare per nulla il Pnrr, sarebbe una prova di maturità se, su tutte le tematiche riguardanti gli impegni dell’Italia con l’Europa (Pnrr, riforma del Patto di stabilità, riforma dei trattati…) si riuscisse a costruire un grande Patto repubblicano. Un Patto con alcuni chiari intenti comuni (come quelli che ho provato a delineare per il Pnrr), utile di fatto per evitare di ricacciare il nostro paese nel vicolo cieco di un conflitto permanente con l’Ue, con conseguente stigma dei mercati, che pagheremmo a carissimo prezzo. Un Patto che consentirebbe al nuovo governo, chiunque sarà a guidarlo, di inserirsi subito nel solco di credibilità e autorevolezza tracciato dal governo Draghi, senza alimentare confusioni e incertezze.
Farebbe onore a tutti, vincitori e vinti. Perché metterebbe al centro l’unica vittoria che conta: l’interesse dell’Italia, dei suoi cittadini e delle sue imprese.
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