Così Draghi lavora per mettere al riparo il Pnrr dalle minacce sovraniste
Palazzo Chigi punta a conseguire 45 dei 55 obiettivi rimasti nel 2022 prima del passaggio di consegne. Meloni per ora fa danni solo a parole, e chiede dritte al premier. La tentazione di FdI di stravolgere il Piano si scontra col Quirinale e con le strutture tecniche che il prossimo governo erediterà
La risposta, d’ordinanza, dice di un rispetto morboso delle formalità istituzionali, quasi a voler prevenire qualsiasi accenno di complottismo: “Solo affari correnti”. Così riferiscono i collaboratori di Mario Draghi ai funzionari dei vari ministeri che in questi giorni di siesta agostana si sentono sollecitati a fornire dati e tabelle. E del resto a sgomberare il campo, a fine luglio, c’ha pensato il Quirinale, che ha settato il metronomo di Palazzo Chigi sull’andante spinto, riguardo al disbrigo delle questioni rimaste in sospeso dopo la crisi di governo. Muoversi, dunque: specie sul Pnrr, che più di tutte è l’incombenza che non ammette tentennamenti.
L’ipotesi del congelamento del Piano, che pure alcuni consiglieri giuridici del premier avevano considerato, Draghi l’ha rigettata risolutamente: “Richiedere sei mesi di stop sul raggiungimento degli obiettivi? Non esiste”. L’ambizione, al contrario, è di raggiungere entro fine ottobre, data in cui a Palazzo Chigi ipotizzano l’effettivo passaggio di consegne, almeno 45 dei 55 target previsti per dicembre. E per questo Roberto Garofoli nelle scorse ore ha inviato ai capi di gabinetto dei ministri una mail per convocarli tutti, la prossima settimana: “Riunione operativa”. Tutti dovranno indicare, tra le scadenze concordate con la Commissione, quali sono più facili da rispettare, e quali invece abbisognano di interventi specifici. Perché certo, Draghi professa un ottimismo sincero, quando dice che “se lasciamo una macchina che corre, nessuno la porterà fuori strada”. Ma il passaggio di consegne, all’ombra del sovranismo di Giorgia Meloni, pone molte incognite.
A partire dal ddl Concorrenza. I decreti attuativi che mancano sono necessari perché la Commissione consideri superato l’esame: e tra i mancanti ce ne sono di spinosissimi, come quello sui balneari e sui servizi pubblici locali, su cui sarà necessario un passaggio in Cdm che, si spera, non sarà travagliato dalle bizze di chi, per uno zero virgola in più nei sondaggi, accetterebbe di mettere a repentaglio miliardi e reputazione del paese.
E’ anche per questo che Draghi si sforza di mantenere cordiali i rapporti coi suoi ministri e coi loro leader, anche quelli che lo hanno sfiduciato. E cordialissimi, peraltro, restano quelli tra il premier e la Meloni. La presidente di FdI ci tiene a mostrarsi affidabile: e non solo all’ex capo della Bce, ma anche ai responsabili di quelle strutture che, per volere dello stesso Draghi, sono state costruite in modo da sopravvivere all’avvicendarsi delle maggioranze e alle conseguenti pretese di spoil system. E dunque con la segreteria tecnica di Chiara Goretti, con l’unità per la regolamentazione del prof. Nicola Lupo, insomma col centro di comando e controllo del Pnrr che sta a Palazzo Chigi, al Mef, e che ha addentellati in vari ministeri, la Meloni dovrà relazionarsi. Una “catena di sicurezza”: così, qualcuno, la definisce dalle parti del Quirinale. Come a lasciare intendere: chiunque verrà, troppi danni non potrà farne.
Non nelle azioni, almeno. Quanto alle parole, lì qualche turbolenza c’è già. E non a caso, agli ufficiali di collegamento meloniani che, come Raffaele Fitto e Giovanbattista Fazzolari, in questi giorni hanno cercato canali diplomatici coi funzionari che sovrintendono al Pnrr, è stato spiegato che evocare stravolgimenti del Piano non è cosa saggia, perché induce timori negli investitori internazionali. E del resto, se quelle tanto vagheggiate modifiche vengono ritenute necessarie per affrontare la crisi energetica, allora la Meloni dovrebbe rivolgere le sue attenzioni al RePower Eu, il fondo comunitario che Bruxelles dovrebbe, proprio per finanziare investimenti sulle rinnovabili, inaugurare tra dicembre e gennaio prossimi. Sperando, certo, che per allora non ci sia, a Roma, un governo che con l’Europa è entrato in conflitto.